Enrico Capodaglio:

Sguardo sul buio

 

( Maria Lenti, Albero e foglia, Forum/Quinta Generazione, Forlì 1982)

 

C’è un quadro di Matisse, intitolato “Finestra sul buio”, che si presenta all’improvviso, dopo tele accese, abbaglianti, suscitando l’effetto di un improvviso ingresso da un luogo assolato in uno oscuro. Ma, fissandolo più a lungo, emergono parvenze e contorni: non è uno sguardo sul cieco nulla, ma immersione avventurosa nell’ignoto.

Così, anche certa poesia, è luogo in sé inesistente, ma varco, passaggio spalancato tra la camera del cuore e l’inconfinabile vita fuori di essa.

Lo sguardo sul buio di Maria Lenti - sguardo attivo, e non stona dirlo – è consapevole non tanto di ‘pensieri negativi’ o di poetiche d’avanguardia, quanto di esperienze umane essenziali, condensate in certe odi di Saffo o nei carmi di Catullo. Ma è anche acutizzato da una intuizione filosofica sinottica dell’esistenza, che fa sì che ogni suo breve accordo sia parte di una sonata intera. Si tratta di poesie d’amore, idilli ed epicedi, nelle quali l’eros è soffio vitale, anima materiale, energia che sintetizza, e incarna, l’insieme dell’accadere del mondo.

Nel Simposio di Platone l’amore è visto anche come ricerca della immortalità attraverso la generazione, così in questi versi l’amore, non più rigenerabile, diventa descrizione dell’impossibilità della vita stessa di realizzarsi, di crescere su se stessa, il che comporta la scoperta della nuca mortale e fredda della vita.

In “Non vedo” (p. 21) si legge: “Io dico amore, la mancanza / tu dici il reale / Eppure, pensa un po’, / sono eguale cosa / le due parole”. Il poetare rimanda ad un al di là del linguaggio quotidiano, il quale pretende di denotare due esperienze estreme tra loro opposte, e rimanda invece alla stessa storia corporea e psichica della vita. La “mancanza” dell’amore, d’altro canto, non è vuoto, non-essere, ma è una forma contraddittoria di essere, cioè la compresenza di vita e di morte in ogni atto ed esperienza umana.

Se la scoperta intellettuale e corporea dell’ “impossibilità” sia stata prodotta o solo occasionata dall’amore incompiuto non credo sia possibile intuire dall’esterno, anche se ogni scoperta della vita è quasi sempre occasionata. Certo è che Maria Lenti poèta quando è già risuonata una sentenza (p. 49), a ‘catastrofe’ avvenuta, ed i versi si fanno essenziali per necessità psicologica più che per poetica della brevità: per non svilire il silenzio che a quella consegue. Se c’è tragicità non ci sono, però, né il patetismo né il cinismo ironico: i due eccessi tipici dei sentimentali (cioè di coloro che non sanno che i sentimenti vivono liberi da noi). C’è piuttosto una vittoria sulla paura, anche se certo non sul dolore, tramite il discorso poetico.

“Come sempre / i versi stampano / - ma non rappezzano - / il vuoto-scia /dietro le tue spalle” 8p. 7), ma stampare in modo chiaro il vuoto è già dare uno spartito alla propria vita, uscire dal disordine del fatto per entrare nell’ordine musicale.

Un amato si distingue onnipresente nello scenario buio, tra le forme che emergono davanti alla vista che comincia ad abituarsi: egli fa presto a diventare un che di divino, nel senso familiare e quasi domestico dei greci, in quanto possibilità di varco, di realizzazione, di sortita dalla stanza del corpo mortale (ahi: “il ritorno alle pareti”, p. 7). Del semidio ha il sorriso smaltato, con il quale risponde alla pena (p. 10), ha l’armatura razionale, diventata seconda natura, che porta a confidare nel linguaggio razionale più che nelle emozioni del corpo poetico. La amante, invece, vuole dare ed avere e si cura più della realizzazione, della generazione che dell’espressione: “Pensavo, credimi, poesie insieme a te”, fino al punto di fingere di snobbare i propri versi, pur di attingere alla carnea poeticità dell’esistenza stessa, il che è un modo per gettare quello specchio che qualche poeta contemporaneo preferisce ancora guardare, per non vivere. Se ci sono dei poeti che, senza volersene accorgere, parlano della vita come di un essere sdoppiato da loro, magari femminile, Maria Lenti, nei suoi epicedi, tende invece a condensare in un singolo essere la vita nel suo insieme, che non le piace lasciare come un indeterminato fantasma.

Ma anche qui è intonato un confronto con i greci: nel Fedro platonico, nel rapporto erotico, la forma corporale diventa rivelazione di una vita ultraterrena. Il rapporto tra soma e psiché si intende ora in questo senso, nella coscienza sia del loro legame, sia del loro conflitto e contraddizione: il corpo diventa l’acrobatico, paradossale punto di incontro (“Ci si trovava / su soglie minime (minime?) / fitte / nello smembramento dei fianchi”, come due rette parallele all’infinito, se non si incontrano mai nel punto di un corpo.

Questa congiunzione, nell’amore, di anima e corpo (“Ti ho conosciuto e t’ho amatoo / perché anima e cervello / uguali in me / uguali avevano i cerchi intensi”) è ciò che può rendere la vita un viaggio avventuroso, ma rischioso. E’ come il camminare su di un filo, sospeso tra due morti: la morte arida del disamore, che è - questo sì - non-essere, vuoto, inconsistenza, e la morte “al contrario” (p. 26) dell’amore vissuto come mancanza, come impossibilità. La scelta è tra la vita vegetale e la torsione nel paradosso dell’amore, nella sua possibile vitamorte quotidiana.

E tuttavia si sa che l’elemento divino è nell’amante. Ecco che si snuda la gara con l’amato, la contesa dialettica, anzi: retorica, in senso nobile, della passione: “La perfetta analisi della realtà” è sempre da preferire alla “fuga nel tutto dei miei anni”? La profezia dell’amato circa la fine della poesia d’amore (con lei dell’amore stesso) sopravanza davvero la sconfitta che “diventa favola”? (p. 30).

E’ il momento della raccolta poetica nel quale si cerca un equilibrio tra ragione e corporeità, ed è appunto codesta ricerca che impedisce che alla scoperta dell’impossibile segua uno struggimento recriminatorio, come nelle donne abbandonate delle Eroidi ovidiane o uno sgomento verso “l’invincibile animale” (Saffo, fr. 30) dell’amore. In Maria Lenti c’è un coraggio che, più che soffiano, immagino filosofico: realtà e mancanza, essere e nulla, presenza e assenza, posseggono entrambi un peso ed è l’amore-mancanza a farli convivere.

Affacciandosi alla finestra sul buio, la presenza umana è onniabbracciante: non si notano quelle citazioni di piante ed erbe per le quali ci si perverte amorosamente o ci si distrae ironicamente ancora oggi. Se appaiono vitalbe, ginestre, spinosi fiori viola, è perché in essi si è condensato un tempo uno sguardo dell’amato diventato, nell’assenza, metafisico.

A questi lei ancora si rivolge: “Dell’oggi dunque ti faccio / ultimo dono.” E’ il dono del presente, un “tempo-fissità” (p. 54), verso il quale lo stesso dire poetico tende, come una freccia al naturale bersaglio. E’ un amore estatico, così lontano da ogni amore cosmologico, ontologico (sì: da Dante) perché cerca, certo già nell’al di qua, comunque e ovunque, l’incontro delle rette.

La notte è già più chiara: l’albero del titolo barbaglia per un momento, dalla base del fusto alle chiome: il tempo tutto e il tremulo istante della foglia. Causa ed esistenza, origine e processo, natività sicura delle radici e rischio della vita su troppo esili, stagionali, piccioli di tempo, che si trasmettono senso a vicenda. Una voce poetica, aforistica, breve, si tradisce da una finestra. Resta pur sempre notte. Più dolorosamente per quella voce?

Possa presto tornare la luce.

Enrico Capodaglio

1982