Velocità private nei “Versi Alfabetici” di Maria Lenti - 2005

 

di Carolina Carlone  

 

Il volume Versi alfabetici dell’urbinate Maria Lenti, accompagnato dall’illustre prefazione di Gualtiero De Santi, è una raccolta intrigante e spiazzante fin dalla stessa immagine di copertina (di Rita Vitali Rosati): una barca a vela giocattolo adagiata di fianco, a vele spiegate, su un verde tappeto d’erba, quasi a suggerire approdi ‘altri’, della memoria o del cuore. E questo senso di ‘straniamento’ affiora in tutte le pagine di questa raccolta: un “libro di righi veri” pag. 48), un ‘dizionario dell’animo’ scrupolosamente ordinato dalla A (di “Agenda”, il testo che apre il volume) alla Z (di “Zucca”, testo iconologicamente fulminante che sigilla il volume), nel quale sapientemente si mischiano, si richiamano e si confondo lacerti quotidiani e immagini alte, raffinate, fra loro volutamente distanti o dissonanti.

E quella di Maria sembra veramente una Poesia fatta di evoluzioni acrobatiche, di ritmi veloci e suoni scoppiettanti, di immagini e lemmi cangianti, che spesso solo inizialmente si mostrano consueti e ‘mansueti’ ma che poi si ‘inanellano’, mutano di segno e, con rapide accelerazioni, frutto di ‘velocità private’, conducono lontano. Come in “Campo” (pagg. 19-20), dove l’immagine familiare e solare del ‘campo di grano’ progressivamente cambia colore e, con una tanto libera quanto drammatica associazione di immagini, chiama alla luce della coscienza il ‘campo di sterminio / campo di lavoro / campo di raccolta / campo di profughi’, per giungere a quel ‘fermare il lampo’, a quella invocazione/esortazione finale, tanto umana quanto dolorosa, che indica l’unica possibilità di ritorno a quella quotidianità pacificata e umana che il ‘campo di grano? Evoca, invoca e testimonia.

Contenuta dall’ordinata architettura del volume, quella della Lenti è una lingua assolutamente sperimentale che, come ben spiega Gualtiero De Santi è “rimata e ritmata, legata in schidionate in verticale oppure sviluppatesi su un piano di superficie” e che a tratti si avvicina al borbottare misterioso e alchemico delle fattucchiere.

Una ‘lingua nuova / lingua nuvola’  (pag. 49) che si fa e si disfa, che muta d’aspetto col solo variare di un suono, sfruttando un’assonanza, un contrasto o una piccola ma definitiva cangianza del senso, passando da citazioni letterarie e tecnicismi a piani più colloquiali, intimi e riflessivi. Esemplare in tal senso mi sembra il componimento “Erba” (pag. 36), dove l’elencazione dal sapore bucolico dei nomi delle erbe dei campi lentamente ‘smotta’ e si apre ad orizzonti di senso piiù vasti fino ad arrivare all’evocativa immagine di chiusura dell’ ‘erba / vocabolario’ (pag. 38). Seppure in qualche modo con un ‘processo inverso’, anche in ‘Torre? (pag. 92) risulta evidente questo continuo muoversi fra piani diversi: in questo caso, dalla torre di babelica memoria si giunge alla più intima, ma non meno carica di emozioni e potere evocativo, Torre Cotogna, sita nelle vicinanze di Urbino.

Ma le ‘velocità private’, le vicende più umanamente intense, ‘l’afflato l’emozione / la resistenza il fiato la ragione’ (p. 99) affiorano in maniera più forte, con l’intento di ‘non perdere colore’, in testi quali la bellissima “Varianti di valico” o “Lettera da un otto marzo (“Forse è la paura / nel rifiuto imprevisto di ordini reciproci? / Allora dimmi, se puoi, se come quando / cose e parole ascolterai, / tue di me.”) così come nei versi affidati esclusivamente al dialetto urbinate.

Qui la scrittura si distende e rilascia, porta in superficie, la voce più intima dell’autrice, quella di “Una sera, quella sera” (“avem accostat i vis / e ce sem guardati. / Ce pareva la matina, / cosè vicini / com ‘na volta com sempre. / Ma era nott, oh, com’era nott”. Trad.: “abbiamo accostato i visi / e ci siamo guardati. / Ci sembrava la mattina, / così vicini / come una volta come sempre. / Ma era notte, oh, / com’era notte.”).

Una Voce, comunque e sempre, è illuminazione rabdomantica, capace allo stesso tempo di render testimonianza a ‘i corpi che si sfanno nella sabbia’ (pag. 98) e di far scorgere ‘Agnellini in terra e in cielo’ (pag. 23).

 

Carolina Carlone