Vincenzo D’Alessio
recensione a Versi alfabetici, QuattroVenti 2004
Aprire un libro e leggerne le poesie è una avventura con la musicalità, la ricerca, l’entusiasmo di vivere. La raccolta di Maria Lenti è una sfida tra l’essere e il volere divenire creatura verbale. Un racconto di vita in versi, di una ricerca mai finita, inesausta.
I titoli si annodano con le poesie in un labirintico spazio senza tempo né fine sul ciglio di un burrone che serpeggia al di là delle colline:
C’ho sol un gran buron
davanti me. Ma me ferme:
facc un pass indietra. (p.33)
Le colline rappresentano metaforicamente il senso del conosciuto, dell’indimenticato, lo spazio del tramonto l’età che si compie, il burrone il divenire/confluire in altre sembianze.
Ogni cosa, ognuno rotola e si trasforma. Ma la parola resta, resiste, s’incaglia nelle sfere del tempo:
Ce pareva la matina
cosè vicini
com ‘na volta com sempre.
Ma era nott, oh,
com’era nott. (.96)
Alfabeto del tempo, del ritorno al parlare antico, facile, quello della propria identità di nascita, di origne: il dialetto, la filastrocca, la favola. Infatti c’è tutto il percorso poetico, dall’a (Agenda) alla z (Zucca), la volontà di ricerca di una via d’uscita, di un “valico”, al di là del quale <<la resistenza il fiato la ragione>> riprendano il loro significato, il loro calore.
Infine, l’esistenza <<anche se breve sia felicità>>. Come ha scritto Gualtiero De Santi nella prefazione: <<Ecco, allora, lune, inganno, chiarore: un filo indotto a svilupparsi su una linea alternata di affermazione e negazione>>.