Anna Ciufo, Il timore accigliato delle
pause, “Introduzione” di Francesco D’Episcopo, Salerno, Ripostes 2004 |
La vita è infanzia perduta, sogno svanito, attese non realizzate? E da quando, da quanto tempo, in poesia la vita si presenta con questo abito nutrito, in più, delle cose che, naturalmente, entrano in quell’abito: il mare ed i suoi organismi, il paesaggio che dischiude mondi (poi mai raggiunti), gli elementi in cui siamo immersi come l’aria, l’acqua, gli affetti che ci hanno cullato (madre, padre, amici)? Su queste coordinate fluisce il libro di poesie di Anna Ciufo, Il timore accigliato delle pause, un libro che muove emozioni e sdipana le strade del non più, del non possibile, dell’incanto dell’inconsapevolezza poi svelata proditoriamente, ma restituita distesamente nell’uso – così caro a tutta la tradizione poetica italiana – dell’imperfetto indicativo, cioè del verbo narrativo per eccellenza. Anna Ciufo usa centellinare le pause, il nocciolo della sensazione di un percorso (Ungaretti, evidentemente, ha catturato anche lei), ma più rivolgendosi, a mio parere, al passato che non <<a ciò che resta da vivere, da sognare, da amare>> (come invece scrive Francesco D’Episcopo), traendo da quel passato – vivo e vibrante, dunque non pauroso – materia di poesia e di vita di tutti i giorni. Sembrerebbe, alla fin fine, che queste liriche cullino l’assenza di un oggi, mentre il passato si identifica genericamente con uno ieri e la vita genericamente con la vita in quanto tale anche se gli Aurunci, in “Magie infantili”, suscitano un senso di infinito di sapore vagamente leopardiano. Maria Lenti |