Recensione di M. Lenti su :
Gaspare De Caro,
L’ascensore al Pincio, con una nota di Mario Lunetta, Macerata,
Quodlibet 2006
Nella sua nicchia l’ascensore va su e giù, da Piazza di Spagna al Pincio appunto, negli anni che, per l’autore Gaspare De Caro - identificatosi nel narratore e dunque un po’ cronachista e un po’ storico, la sua professione principale -, sono gli anni dell’infanzia e dell’adolescenza vissute in una cornice fascista ed in una famiglia più o meno consapevole dell’intorno, in ogni caso sentendo l’eco non vivendo direttamente i rumori dell’atmosfera del regime. Una famiglia che non parla, pour cause, dei reggitori di quella cornice e va avanti nel suo quieto vivere fatto anche di solidarietà: quella spicciola, silenziosa e atavica, di tutti i giorni, ravvisabile nell’ospitare, all’occorrenza, dentro la propria povertà la povertà di un’altra famiglia, sì da rendere il capofamiglia, il padre del narratore, agli occhi del narratore stesso, oggi e ieri accorto e riflessivo, un eroe. E si sa che ciascuno ha radici e sodali: bisognerà ricercarle e ricercarli per ristabilire contorni e sfumature, per vedersi meglio nella crescita e in ciò che la crescita, anche collettiva, ha depositato o lasciato come bagaglio. Il ragazzo si risitua nel cammino del padre e della madre, dalle dipartite dalla Calabria, lontano da un padre-padrone, pur bonario ed estroso, fino all’approdo a Roma in cui un Consigliere si fa riconoscere con il viso del Potere insito in quello dell’Autorità. Alla tragedia più grande dell’Italia nessuno sembra fare caso, nessuno pone mente. Chissà se per non disperare o per atonia sentimentale in quelle periferie di abbandoni e in quegli uffici senza guizzi. Il baluginio linguistico (<<…scrittura obliqua e straniata>>, scrive nella sua nota Mario Lunetta) diviene talora lampo di invenzione (che potrebbe rimandare - molto alla lontana - alla lezione di Gadda): dice da un lato, almeno in alcune pagine, il distacco dalla realtà di tutti i protagonisti-camminatori ed un loro non-essere nel corpo di un esistente sociale non dei migliori; dall’altro lato sottolinea proprio la sospensione del tratto realistico affidata ad una aggettivazione contrastante in sé e concordante talora con il verbo, talaltra con il soggetto o i vari complementi. L’altalena del linguaggio fa oscillare il testo tra ironia e compatimento deprivato di desiderio, la prima (del narratore) rivolta al potere o al costume, la seconda (del protagonista) affiancata ad esistenze che non sanno, forse non possono, agire diversamente. In questo libro di quadri della memoria (o di quadri di memorie, suggeriscono i capitoli), qualche cosa alla fine sfugge alle righe o si inarca tra di esse, come se Gaspare De Caro avesse, ad un certo punto e seguendo un guizzo, lasciato una strada, la principale - del sé che ricorda -, per seguire quelle dello scrittore e non volere, alla fine, ricongiungersi al segmento d’inizio inibendone la conclusione. La quale, è vero, non necessariamente deve esserci… almeno, quando si vuole, come sembra evincersi da L’ascensore al Pincio, lasciare il passato dove è. Perché esso, davvero, per il narratore, è finito lì dove è finito. Qualche dubbio, tuttavia, sulla sparizione finale del protagonista a me lettrice resta.
Maria Lenti
|