Uscito su <<la falce della luna>>, n. 5, ottobre 2005
Appunti su Ronda dei conversi di Eugenio De Signoribus
di Maria Lenti
La poesia che interroga: <<ma chi più li guarda i trascurati quando è diverso / il peso dei vivi e dei morti? Quando la lingua s’infalsa fino a truccare pubblicamente i tabulati?...>>; la poesia che si fa pane per il pensiero e batticuore: <<i morti sono le fondamenta del tempo ventunesimo / dopo Cristo…>>; la poesia che partecipa di un dolore collettivo: <<vidi l’alba dopo la battaglia / sopra un sasso bruno // il chiarore snudava la valle / fin dentro la casa bruciata // tutto era un’ondata sola / tutto era dolore>>; la poesia che guarda dentro un “Teatro spento”; la poesia che si fa voce critica dello sgomento del presente e dei suoi buchi; la poesia che dà corpo al sopravvissuto, al resistente, al non garantito, ai <<restanti umani>>, agli sconosciuti; la poesia che trova la strada per dirsi e per dire tutto ciò insinuandosi in una metrica varia, nel dialogo, nella soggettività meno individualistica, ossia la poesia che ha gli strumenti stessi del poetare o della sperimentazione poetica… L’ultimo libro di Eugenio De Signoribus, Ronda dei conversi (Garzanti, 2005), nell’inserirsi in piena sintonia dentro la sua voce (che ha già connotato Altre educazioni, Istmi e chiuse, Principio del giorno, in parte anche Case perdute e, forse, La pista di Sisifo) con una intonazione di “poesia civile”, percorre - come poche altre voci poetiche della sua generazione e, in ogni caso, di quelle venute alla luce nel secondo Novecento -, un chiedere che ci riguarda da vicino, precorre delle domande che vanno alle radici del vivere (creando un solco grande dentro la poesia civile) e del vivere qui, ora, in questo mondo, con gli ordinatori, i gestori, i portatori, e tutti gli -ori che vorrebbero stabilire (e stabiliscono e determinano, giorno per giorno e con protervia) gli orrori e le loro coperture. Tutto ciò e altro appannaggio di questi ori, che agiscono perfino con nonchalance e superficialità, perfino con il sorriso sulle labbra, persino dimenticando le profondità dell’essere o volendo non sentire una loro appartenenza al genere umano, stravolgendo i tempi, il tempo, la memoria con la giaculatoria tutta insita al meglio nell’inganno e, al peggio e più diffusamente, in un lucido potere. Potere, appunto, dal nucleo e dai nuclei riconoscibili e non metafisici. Resiste un passato? Resta una memoria, quella dell’infanzia, per esempio, quando si vedeva <<tutta la terra che immaginavamo e anche di più>>? Si siede vicino, accanto, la nostalgia? Affidarci ad esse o vedere la solidarietà (o l’amore) per un altro inizio che scarti il possesso (<<chi non può averti t’uccide>>) e veda il desiderio nella sua forza primigenia di vita? Il punto di domanda può diventare una possibilità, può scivolare nel riscontro, può essere una risposta di ricominciamento, contornato da una religiosità che - non abbracciando un dio specifico - veda nell’altro resistente, sopravvissuto, pellegrino, in una parola, nell’alterità, un viaggiatore a sé uguale, un viaggiatore che svolta per un’altra strada, per un oltre: <<scrutando al termine della strada, quando questa / a delta se ne va, un punto verso cui portare il passo, / egli letteralmente abbrivida… / il già percorso rapidamente ammuschia, il sacrificio / è in un fondo di bottiglia…e sempre più s’assottiglia / il margine verso i gobbuti sentieri… // non c’è più tempo e non c’è più che inizio / tra folte cannete e ombre forse umane>> (Oltre) Appare la ricerca di un passaggio, pur stretto, verso una sosta, una fine-pena pro-vocata e voluta dai viaggiatori stessi (popolo è parola presente in questa raccolta di poesia) nell’ascolto del sé e dell’altro. E <<chissà se, dopo un tortuoso arrancare, si arriva / a un punto di snodo da cui la vista può scorgere / un luogo di chiara sosta…>>.
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