GIANCARLO DEL GUERRA AD ANCONA
 

 

Giancarlo Del Guerra restituisce una Ancona segreta, insospettata, inattesa: la città invisibile, direi, delle marine sorprese all’alba o al tramonto, delle geometrie suggestive fatte di chiari e di scuri, del Guasco (ma è un promontorio quasi metafisico o metafisico semplicemente)  còlto da nord e da sud che, per la prospettiva, sposta al di là, nella parte che non si vede, l’attesa di un evento, un sommovimento anche sentimentale, annunciato nel verde del mare o nell’azzurro sfumato sul bianco dello scoglio, mentre il sole si incendia all’orizzonte.

Giancarlo Del Guerra lavora le sue tele per sottrazione e ricostruzione. Sottrae, infatti e quanto più possibile, gli oggetti e le particolarità della realtà: sì che San Ciriaco, per esempio,  senza case attorno, senza un fiato umano, diventa il simbolo di un colle e di una città, che invitano simultaneamente ad avvicinarli e a lasciarli nella loro “separatezza” (nel loro essere unici), incontaminati, da amare senza chiedere loro il perché. E, nello stesso tempo, l’artista aggiunge il sentimento di e da (o per) il luogo, la metafora di una solitudine da diradare (o da riempire: a seconda del valore della metafora), essendo già connotata come elemento della natura tutt’uno con l’impronta (nel caso, la cattedrale, bellissima) fissata dall’uomo. Così per il Passetto, il cui monumento viene collocato (De Chirico o Savinio?) in mezzo al mare con una operazione inaspettata,  conturbante e ironica.

A voler restare al titolo - Ancona vista da un pisano - che il pittore di Pisa ha dato, appunto, all’insieme delle sue nature anconetane, qui Ancona risulta una città liberata dal carico del pesante sovrappiù quotidiano (il traffico, le incompiute, il disordine urbanistico, per esempio), dando per già nota la sua   storia di città  di  mare  e  di  pescatori  e  di  portolotti,  di  passione politica e intellettuale, sindacale, città di intromissioni storiche esterne più o meno forzate e comuni ad altri centri italiani innervati anche della storia del primo novecento. Liberata anche dal peso di essere capoluogo di una Regione che deve, chissà poi perché, dar conto di questa sua preminenza.

Ancona nuova e diversa, allora. Vista come la si sente, come credo la senta e la viva intimamente chi nella città dorica è nato, è vissuto, chi, pellegrino o viaggiatore per necessità e per sorte lavorativa o di studio,  l’ha lungamente interrogata su una domanda esistenziale dalla risposta sempre in forse e mai esplicitata.

Ancona ambigua, alta sul colle, che si apre all’improvviso e si fa calda a chi la guarda. Ancona “rivissuta” da Giancarlo Del Guerra anche per quanti la conoscono fin nelle più riposte vie e scorci, quelli sotterranei intendo, “vera” e lontana, calda e sfuggente, avvolgente e scostante: lì nelle lontananze prospettiche che portano lo sguardo dal primo piano verso l’orizzonte e proprio per le pennellate leggere, a volte trasparenti, che segnano la terra o il mare o le rocce o un arco di Traiano che subito immette in un percorso infinito, o per un Cimitero ebraico, lunare e perturbante, sfumato nel suo senso di eternità  non appenata.

Così Giancarlo del Guerra, la cui pittura per me è stata una scoperta in occasione della mostra “Ancona vista da un pisano”, fa della città che lo ha accolto (forse respinto all’inizio) un alter ego: un po’ come la vita, che ogni volta, ogni giorno, chiede conto a se stessa e a ciascuno di noi di un nostro esserci e riconoscerci per riconoscerla.

 Maria Lenti

                             Urbino, gennaio 2003