Enrico Maria Guidi

Sulla poesia di Maria Lenti

 

“La poesia è ancora praticabile, probabilmente: io me la pratico, lo / vedi (…)”: sono questi due versi famosi di E. Sanguineti dai quali traspare, in maniera evidente, il tentativo di affermare la pratica della poesia, tentativo che tornerà ancora più incisivo in un’opera di un altro grande del Gruppo ’63, in quel libro dal titolo chiaro ed emblematico al tempo stesso, che è Nel fare poesia di A. Porta. Non sono citazioni a caso. La poesia di Maria Lenti è situata su questa linea, non certo quella della neoavanguardia, ma della necessità di affermazione della presenza, nella realtà o nel sogno, della poesia e non come testimonianza, documentazione di un momento della vita, ma, quasi, come l’affermazione di una visione della vita, in senso ideologico direi, che si risolve in fine nella parola tesa, in un taglio interiore che coincide con l’amore.

Chiunque si accosti superficialmente alla poesia di Maria Lenti può facilmente cadere nell’errore di etichettarla nel genere della poesia d’amore (o addirittura erotica), quel filone che, dall’origine della Letteratura Italiana fino almeno al XIX secolo, ha dominato gran parte del panorama culturale e si è costituito quasi come l’unico genere accessibile all’universo letterario femminile. Tuttavia se ben si leggono i versi della Lenti, se si cerca di penetrarli e di accedere oltre l’impatto impressionista, ci si accorge che c’è qualcosa di anomalo, qualcosa che diverge dalla più o meno tradizionale poesia d’amore. Intanto il metro risulta sincopato, rotto, l’endecasillabo a volte spezzato e la musicalità non si affida alla rima o all’assonanza, ma ad un procedere direi istintivo e immediato. In questa poesia dominano le contrapposizioni, le negazioni e, a volte, anafore ricorrenti che tendono a creare uno stato di “destabilizzazione” e bloccano lo scorrimento della lettura per indurre alla riflessione.

Mi sembra importante subito definire un concetto e cioè che la poesia della Lenti non sembra tanto una poesia d’amore, quanto una poesia dell’amore, nel senso che nei suoi versi, tramite i suoi versi, non si canta la situazione o il sentimento dell’amore, ma l’amore inteso come forza originaria, come motivo, anzi leitmotiv dell’esistenza. La passione d’amore (e non uso il termine passione a caso) è vissuta spesso con disagio, poiché porta, tramite la poesia, a una negazione di se stessi sul mondo e sulla quotidianità e alla ricerca costante di un qualcosa d’altro che però è impedito e negato fin dall’inizio, si nega da se stesso: mentre dilata la voglia di te / a imbuto vi precipita acqua di neve / mai capirò perché restavi al fianco / se già al principio mancava la parola.

La quotidianità negata non può, però, rinunciare a una nozione d’attesa, da non intendersi però nel senso che gli ermetici davano al termine, ma piuttosto come l’unica via necessaria al tentativo di ricondurre l’esistenza dentro i parametri della poesia: è quasi un’arma, l’unica che possa donare una possibilità di salvezza contro il buco nero della disperazione. La tensione che ne scaturisce rivela il desiderio di condurre vita e amore parallelamente nel tentativo di significarli attraverso la poesia, una poesia che è il frutto al tempo stesso della vita, una poesia sentita e percepita con i sensi. Siamo di fronte ad un triangolo al cui vertice c’è la poesia e ai due angoli restanti l’amore e l’esistenza. Non si deve però credere che questo sistema sia generato da un movimento spontaneo, è al contrario il frutto di un procedimento intellettuale che porta in grembo un desiderio, quello di un amore totale. Da qui il taglio interiore della poesia che, da una parte cerca di superare la fragilità del quotidiano e tutti i luoghi comuni ad essa connessi, e dall’altra rivela il tentativo di ricomporre in sé l’unità perduta o mai posseduta, unità tra l’essere e il dimostrarsi, vivere e recitare la vita. La vita è sempre quella dei sensi, l’unità, l’amore totale è raggiungibile attraverso l’emozione, immediata e disinibita, dei sensi.

Il sogno d’amore si rivela però nei versi come la coscienza dell’impossibilità di ottenerlo e soprattutto di conservarlo nel quotidiano, e la necessità quindi di uscire da quest’ultimo (non certamente per evadere, anzi c’è un accordo con il quotidiano in cui la sintomatologia femminile contenuta nei componimenti è una spia interessante) al limite per accettare la solitudine esistenziale, una solitudine che diviene segno stesso della presenza di una vita nell’esistenza delle cose, degli altri, del corso della natura: (Il quotidiano sgrammatica / prigioni. Dove l’apertura acerba / mente?).

Così anche il panorama di Urbino, ma anche del Nilo, della Grecia classica, si integra in un discorso spezzato e diviene solo il tramite per collegare l’esistenza e l’amore con il tutto; tentativo ancora inutile poiché anche le piramidi, spogliate del loro alone fantastico e mitico, sono nella presenza assente / di risposte che rimandano a infinite / chiarità e la Sfinge deve ancora concedere il dubbio se l’evidenza futile / è fatale.

“La poesia è ancora praticabile”: Maria Lenti risponde di sì, una poesia che si impone nello stesso modo in cui una punta secca lascia il segno sulla lastra di rame e, fuor di metafora, è una poesia che ricerca in se stessa le proprie ragioni di essere, che esce dal quotidiano perché in esso vive e in esso ricerca la propria sensazione sensoriale, ma sa che non potrà conservarla, forse perché è semplice la poesia d’amore. / E’ troppo lieve – hai detto – e se ne va.

Enrico Maria Guidi

Urbino, 4 maggio 1994