Il “paesaggio dell’anima” di Carlo Iacomucci
(uscita in <<Archivio>>, Anno XVIII, 5, maggio 2006)

 

Per le incisioni di Carlo Iacomucci si arriva naturalmente a scrivere di un “paesaggio dell’anima”: la nascita-crescita a Urbino e la formazione con i maestri della sua Scuola del Libro, in un luogo definito da scrittori del Novecento, <<città dell’anima>>. Da questo spazio – o da quella astratta essenza – scaturisce il suo mondo di artista, ma è necessario andare oltre per coglierne la ricchezza (quella evidenziata, punto irrinunciabile, nella raffinata monografia con scritti di Floriano De Santi, Vittorio Sgarbi e Pietro Zampetti edita nel 2000 da Il Pellicano), derivata da altri contatti umani e paesaggistici, culturali ed esperienziali via via accumulati nel suo lavoro e nelle sue residenze (Varese, Roma, Lecce, ancora Urbino, Macerata), quinte di un cammino e di profondità vissute dentro cornici…

Carlo Iacomucci si connota per uno stilema nelle sue opere: appunto la cornice. Un fornice che, in primo piano, o nel piano mediano o, talora, sullo sfondo, apre realtà ed entità altre internate in una dimensione che attinge alla memoria (C’era una volta, Nostalgia, Incontro campestre, …), al fantastico Il paese dei sogni, Il paese dei balocchi, …), ai sentimenti quotidiani (El merchet, Volgere, Assidui frequentatori, Indifferenza, …), alla ferialità nutritiva (i diversi Incontri), a quella scena esistenziale e un poco in Iacomucci anche sociale ma del sociale relazionale e vitale, cui apparteniamo, volenti o nolenti, essendo soggetti agenti o soggetti incameranti la sofferenza: vale a dire la scena del teatro, dove il sipario chiude e svela senza nascondere. (Sipario, Teatro…, Scena…, i titoli, seguiti a volte da specificazione: Scenauno…, Theatrum Vestis…, Sipario ducale di sapore volponiano.)

Personaggi sempre in cerca di un autore ed eterodiretti, in ogni caso, da un autore che sta dietro le quinte (la cornice, le diverse cornici nella stessa incisione) e che immette i suoi manichini al centro di una rappresentazione dove la storia – si vedano i personaggi in costume – fa il paio con la contemporaneità burattinesca.

Lieve è il tocco, il bulino dell’artista, pur addensandosi nelle pieghe di un essere che va perseguito, scoperto, catturato liricamente perché non se ne disperda la possibilità di rientrare, di ritentare la parola dopo la positura di un altare (bianco, al centro, sospeso) sul quale si è consumato un sacrificio o sul quale, forse ma uguale è il desiderio sotteso, si sta preparando un rito espiatorio. Perché la natura sia, pur contorta, interrogata (Autunno, Bosco, Studio di animali, …) e rinominata come gradino di un vivere che ci contenga.

Maria Lenti