Recensione di Maria Lenti DENTRO IL NIENTE ANCORA LA VITA su: "Isman" di Duilio Loi - Einaudi 2001 - Torino
pubblicata su PELAGOS anno VI n. 7/8 - 2001/2002 - Ed. QuattroVenti |
Sentire profondamente l'esperienza della vita in tutte le sue cose: fisiche (aria, ciclo, vento), sentimentali (amicizia, amore, affetti, pathos e compassione, vicinanza e rifiuto), di vissuto giornaliero (persone, tra cui Isman, fuori di una storia che le connoti ma dentro la città quotidiana e già fatta propria nell'assunto del vissuto), il tempo e i luoghi (Milano, per esempio), la loro intrinseca vita e valenza. Si potrebbe aggiungere molto altro per Isman (Torino, Einaudi, 2001) di Franco Loi, ma si può tentare di concentrare in poche parole: vivere, essere nella vita, respirarne il fiato. È come se Loi partisse da un inespresso, sotterraneo, antico e nuovo, come la terra e il mondo e l'uomo, interrogativo: che cos'è la vita? E rispondesse in poesia, ma sottraendo l'essenza dell'esperienza, che la vita è il vivere in tutte le sue pene e felicità, meglio, che la vita è sentire pene e felicità e il fiato che le cose della vita mandano a noi perché le si colga e le si capisca. Questo non consola, certamente, ma rende consapevoli di un processo naturale immodificabile accettato in quanto tale e di un procedere in cui si immettono cambiamenti - anche dovuti - che non cambiano la sostanza della vita stessa pur variando esteriorità e costumi. È il senso, insomma, di una scoperta continua, di un assiduo tallonamento verso l'esperienza che, mentre la si vive, conferma il vivere stesso nella sua totalità, in cui hanno posto, allora e in poesia, la malinconia e il sorriso lieve, la tristezza e l'ironia, la gola seccata nell'evidenza e lo spiraglio di una speranzuccia «denter la vita che la sbianca el ner» ('dentro la vita che fa bianco il nero'), l'afflato per il sodale, il riso per chi pensa che l'esteriorità sia il risvolto di una essenza esistenziale. L'altalenanza delle cose è l'altalenanza delle emozioni, la sensazione che si traduce in emozione, la scrittura che ne da la grana. Isman risulta essere l'ultima uscita di un percorso poetico trentennale, che, nelle sue differenze scritturali, mantiene una costante, la liricità, più o meno concentrata in passaggi (per esempio nel XVIII capitolo di Teater, del 1978) o diffusa in tutta la raccolta già da Stròlegh, del 1975 (sulla quale Franco Fortini scriveva nella Introduzione in una comparazione con / cari del 1973 che Loi era qui «un lirico che tende la propria voce fra una saggezza che riassume e pondera e una disperazione che ingiuria e schernisce.»), fino a Verna (1997), attraverso L'aria e L'Angel Certamente, nell'avanzare della ricerca poetica e della scrittura di Loi (ma mi viene da dire, della vita di Loi), la "disperazione" ha lasciato dietro di sé quasi tutta l'ingiuria e parte dello scherno ed è diventata sentimento profondo, ma non altro, della vita stessa: non avviene così nell'uomo che vive? Non avviene così negli scrittori il cui versante di riferimento sono i nodi vitali più che le vicende? E come si determina, nella scrittura, l'affinarsi della sensibilità e il suo concentrarsi su un asse sottile che par te dalla nascita e arriva fino alla fine, vedendo sempre dei giorni lo sguincio dei conti che non tornano e di sbieco le luci e le ombre? Osserva Paolo Lagazzi, titolando L'ultima terra della libertà la lunga re censione a Verna: «Non è solo, come qualcuno ha osservato, dopo L'Angel che la lingua di Loi tende a un "assottigliamento" . Da sempre (basti pensare alla splendida raccolta L'aria) il suo pa radossale espressionismo appare a tratti doppiato da una pronuncia arcanamen te delicata e leggera. Questa leggerezza non è certo il frutto di una volontà novecentesca di purezza: volendo trovare un termine di confronto nel Novecento, è solo, forse, a Caproni che potremmo pensare, benché in un gioco diversissi mo di registri, Loi sa dire nel modo più vero l'inconsistenza straziante della vita: la sua natura d'aria, il suo essere un puro ricamo d'illusioni su un'inte laiatura di fumo o di niente» (Dentro il pensiero del mondo, I Quaderni del Battello Ebbro, Porto Sant'Elpidio, 2000). (Così penetrante e sottile la let tura della relazione vita-poesia, o poe sia-vita, di Loi da parte di Lagazzi da essere, a mio parere, un punto fonda mentale della bibliografìa sul poeta.) In quella relazione entrano gli anelli e le maglie dei giorni, degli elementi, delle condizioni sine qua non ogni acccttazione esistenziale è ressoché impossibile, inagibile. Come se unica ricchezza pos sa essere il sentire, il percepire i noc cioli, gli snodi, la luce o l'ombra. Come accade, oltre che in Caproni, a mio parere in Marin nella lingua di Grado. Ma Biagio Marin ha la gioia di essere «nel silenzio più teso» (titolo della rac colta del 1980, edita da Rizzoli). Scrive a proposito Pasolini nella quarta di copertina: «Marin non sa distinguere la gioia esterna dalla gioia interna, non ha mai stabilito una linea di demarcazione fra sé e la res extensa: la luce del sole e la luce dei suoi sensi sono sempre state la stessa luce»). Come accadde a Tolmino Baldassari, nella lingua della sua Cervia, per vie del tutto altre, quel la cioè che si quietano nella memoria e da qui partono per entrare, dolce il ri cordo e dolce la memoria, nei versi che richiamano in vita ombre e luna e il si lenzio che ora li accompagna o li attor nia; peraltro capaci, ombre e luna di tornare in vita proprio perché il loro si lenzio ha pro-vocato il silenzio dentro il poeta. La poesia di Marin risiede nel filo teso tra sé e il fuori (che è l'altro sé, non scisso); quella di Baldassari vive nel quadro memoriale in cui si dispon gono le persone perdute, i loro affetti. Franco Loi coglie l'intima essenza degli elementi di cui si diceva, carican dola di una sua pena o della pena del vivere. Così la.sua poesia contiene i tratti della vita, tra piacere e dispiacere, come li si vive, come appaiono, nella densità, sfinita nel sentire, di cui sono fatti: «Cume me pias el mund! L'aria, el so fia! j àrbur, l'èrba, el su, qui ca, i bèj strad, / la luna che se sfalsa, l'èr ga tra i ca, / me pias el sals del mar, i matt cinad, / i càlis tra i amìs, i abièss nel vent, / i tucc i ròbb de Diu, anca i munad» ('come mi piace il mondo! L'aria, il suo fiato! / gli alberi, l'erba, il sole, quelle case, le belle strade, / la luna che muta sempre, l'edera tra le case, / mi piace il salso del mare, le matte stupidate, / i calici tra gli amici, gli abeti nel vento, / e tutte le cose di Dio, anche le piccolezze'). Sarà proprio questo piacere del vivere, in cui tutte le cose di Dio (un Dio Creatore, tuttavia, piuttosto che un Dio Ordinatore) si scontrano con le brutture e le cose ingiuste e quella più ingiusta di tutte che è la morte, dell'uomo e delle cose dell'uomo o delle cose della natura distrutte dall'uomo. E nasceranno le prime raccolte, dalla forte ilarità e invettiva. L'aria, L'Angel, Verna, coaguleranno poi in versi leggerissimi lo spessore del vivere Isman n prende, e con nuovo vigore e sotti gliezza, tale spessore colto dietro il niente delle nuvole perche «dre del ment amo passa la vita, / la lus che se la furma a] vus del vent » ('dietro il niente ancora passa la vita, / la luce che si forma alle voci del vento') Maria Lenti
|