SAGGISTICA

… una scrittura,

semplice e piena :

con essa lei dipana

i fili intricati della vita …

(M.C. Nardini)

Letteratura e Arte:

Uscita nella scheda di presentazione a Roma (23 gennaio 2008) de Musa Paesana, Jesi, Tipografia Fiori, 1923 (1974).

Giacomo Magagnini (Jesi 1872 – Roma 1927)

Giacomo Magagnini, o Jacopone da Jesi come si firmava, ha riunito quasi l’intera sua produzione ne La musa paesana edito nel 1923 dalla Tipografia Flori della sua città. Il manoscritto era stato dato nel 1912 all’amico Pietro Flori, che lo aveva spinto a raccogliere il suo corpus poetico – allora sparso tra il periodico <<la Torre di Jesi>>, le mani di amici e il cassetto -. Perché siano passati dieci anni tra la richiesta e la pubblicazione, bella e accurata, non si sa. Ristampata nel 1974 in copia anastatica, ora è qui, con il suo odore. D’antan.

Non è d’antan il sapore dei versi di Giacomo Magagnini, che si snodano, sì, tra personaggi e ambienti, discorsi, battute di una cerchia di conoscenti e conoscenze di un secolo fa, nel riquadro a macchietta, a bozzetto, visti con arguzia, sapidità, malinconia, ma rilasciano la sapienza di ogni tempo, il sentimento di vicende innervate nell’esistenza, dunque non scadute.

In un eventuale studio della poesia italiana in dialetto, più complessivo rispetto a quelli già usciti e magari con questi interagente, Giacomo Magagnini potrebbe essere una voce importante dentro una fascia situabile tra la poesia entrata nella storia della letteratura, nei corsi universitari, e la poesia orale, quella, per intenderci, raccolta da Pier Paolo Pasolini nel suo Canzoniere Italiano del 1975.

Potrebbe includere, tale fascia, per esempio, l’improvvisatore pesarese Odoardo Giansanti (Pasqualon), il cantastorie maremmano Mauro Checchi, l’urbinate dal tono naif Fulvio (Fuffi) Santini. E il colto Magagnini, che sa di metrica e di ritmo, che ha studiato le opere letterarie e le conserva dentro di sé, affascinato però e avvolto dalla lingua della gente.

Lingua assunta con orgoglio, scritta con amore, difesa da chi non ne vuol sapere. Lingua che farà sua, in una poesia affinata sui classici, al posto della lingua letteraria calata dalla nascita nobile e altolocata.

La proverà, questa sua lingua, su diverse corde: la poesia amorosa, la poesia d’occasione, la poesia politica, la poesia come invaso di saggezza per il succo della vita di fronte alla quale non valgono sussiego e superbia, quanto il sorriso, l’ironia, quella che fa abbassare creste e incide un cuneo di verità dentro il petto gonfio di potere e vuoto di sostanza. Così la notazione sulla realtà si mescola con la tristezza dei conti esistenziali sempre in perdita; l’affetto per il popolo si lega con la cultura di questo ed i costumi, con la fede cristiana; l’antipapalismo (dell’autore e di Jesi) fa tutt’uno con la vena libertaria e repubblicana, con l’amore per Garibaldi.

Giocoso, Magagnini: nella scrittura dei Cento sonetti; nel “travestire in abiti jesini”, asciutti e moderni, i canti d’inizio dell’ Iliade; nel prendere in giro i francesi innalzando gli italiani ne La disfida di Barletta; nel demistificare, con la voce di chi proprio non condivide la retorica monumentale degli anniversari, El cinquantenario del 1911.

Divertito lui stesso nel poetare. Volendo divertire i lettori e sapendolo fare in tutta la sua Musa paesana.

Maria Lenti


 

incontri in biblioteca

GIACOMO MAGAGNINI

“MUSA PAESANA”

un’avventurosa vicenda editoriale

IESI PALAZZO DELLA SIGNORIA LA SALARA

giovedì 18 ottobre 2007 ore 18

Intervengono:

Fabiano Belcecchi – sinsaco di Iesi

Rosalia Biliardi – dir. della Planettiana

Enzo Bartocci – artista

Federica Coppari – autrice del libro

“I poeti dialettali iesini”

Maria Lenti – poetessa

Mauro Magagnini – nipote del poeta

L’attore Corrado Olmi durante la serata reciterà alcune poesie dell’autore

 

nostro lunedì
semestrale di scrittura, immagini e voci
marche numero
nove

DEDICATO a POETI e PITTORI delle MARCHE


ANCONA Teatro delle Muse
21 dicembre 2007 h 17.00

MARIA LENTI

partecipa alla presentazione della rivista


Cartolina di invito alla presentazione del nostro lunedì

Cart2007 pdf

Uscito in <<il parlar franco>>, anno V, 5, 2005

Pietro Civitareale, Poeti in romagnolo del secondo Novecento, “Prefazione” di Davide Argnani, “Postfazione” di Giuseppe Bellosi, La Mandragora – Centro culturale L’Ortica, Forlì, 2005


di Maria Lenti


Ricca è ormai, e da almeno una trentina d’anni sempre più approfondita e allargata, la critica sulla poesia in dialetto: certo, forse meno ricca degli autori che scrivono nella lingua dei loro luoghi d’origine o d’elezione per una sorta di pregiudizio durato a lungo. E, tuttavia, scorrendo le ultime antologie della poesia italiana, si evidenzia una considerazione maggiore di questa poesia (dunque della bibliografia su di essa) assimilabile, assimilata anzi, a quella in italiano nel valore e nella valenza.

Felice appare l’attenzione che gli studiosi hanno dedicato, almeno dallo scoccare del Novecento, agli iniziatori di versi nei dialetti della Romagna che andavano a “comporre” poesie e non più solo “macchiette” sulla gente di questa regione, sulla diffusa sua ilarità anche fulminantee e un agire che poteva sembrare bizzarria, strampalataggine. Più minuzioso e critico, invece, lo studio che entra nelle pieghe degli autori di oggi: da Fucci a Guerra, da Baldassari a Pedrelli (Cino e Sante), da Galli a Giovagnoli, da Baldini a Pedretti, fino ai più giovani Nadiani, Spadoni, Gabellini, Teodorani. Ecc.

In questo solco si è situato da circa una ventina d’anni e si situa Pietro Civitareale. Partendo da le “rive d’aria” di Tolmino Baldassari e a proseguire dai testi dei poeti che ho menzionato (e altri: Rocchi, Gori, Bellosi, Balestra, Spallicci, Valentini, ecc.), apre la loro poesia e ne analizza la scrittura, la poetica, la contestualità. Sì che, in exergo (“Tra testo e contesto: quasi una introduzione”) a questo suo volume – in cui sono raccolti scritti usciti in riviste diverse e due inediti – può ben scrivere: <<(…) il dialetto [per i poeti romagnoli] costituisce una sorta di ultima frontiera, in quanto fornisce loro uno strumento di resistenza ad una poesia che l’italiano non sopporterebbe nell’attuale momento storico, una poesia basata su una concezione totale dell’uomo, su una immagine dell’uomo legata ai sentimenti perenni che l’epoca odierna minaccia e mette in crisi>>.

Se la figura della “resistenza” potrebbe essere base comune o coscienza, dunque, scelta consapevole di molti dei poeti che, almeno dalla fine del fascismo (come recupero di una negazione indotta) e dall’esplosione del linguaggio omologato (come induzione alla dismissione e alla perdita di identità e di diversità), hanno preferito – anche per brevi periodi della loro creatività o solo in alcune opere – il dialetto nativo, non è di tutti aver espresso nella poesia il filo lungo che lega il proprio essere alle radici di fondo della vita, a quella striscia su cui nascita e morte, amore e dolori, felicità (o illusioni) e delusioni, tempo dilatato dell’infanzia e seccato della maturità, identificazione di stati d’animo con gli stadi/stati della natura non hanno perso e non perdono i binari, ché su questi si misura o su questi si salda ogni filosofia della vita stessa. La filosofia minuscola del quotidiano, della relazione tra le persone e di queste con le cose, della memoria che tradisce (nel senso che tramanda e inganna), del pungolo avvertito (dentro) per l’assenza della cosa desiderata (fuori) o per la privazione di qualche cosa da desiderare (ancora fuori).

Appare essere questo il filo e il bandolo al quale Pietro Civitareale, nella specificità delle differenti scritture che si connotano per un sentimento prosciugato in ironia e in satira o per la ricchezza delle figure e degli oggetti odierni (“demoliti” o “nullificati” nella poesia dei romagnoli), per la scia spanta in ricordo o per il lampo dell’arco esistenziale, per il quadro (sociale e della polis) scalfito o amplificato, riconduce i poeti in romagnolo del secondo Novecento.

Uscito su <<la falce della luna>>, n. 5, ottobre 2005

Appunti su Ronda dei conversi di Eugenio De Signoribus

di Maria Lenti


La poesia che interroga: <<ma chi più li guarda i trascurati quando è diverso / il peso dei vivi e dei morti? Quando la lingua s’infalsa fino a truccare pubblicamente i tabulati?…>>; la poesia che si fa pane per il pensiero e batticuore: <<i morti sono le fondamenta del tempo ventunesimo / dopo Cristo…>>; la poesia che partecipa di un dolore collettivo: <<vidi l’alba dopo la battaglia / sopra un sasso bruno // il chiarore snudava la valle / fin dentro la casa bruciata // tutto era un’ondata sola / tutto era dolore>>; la poesia che guarda dentro un “Teatro spento”; la poesia che si fa voce critica dello sgomento del presente e dei suoi buchi; la poesia che dà corpo al sopravvissuto, al resistente, al non garantito, ai <<restanti umani>>, agli sconosciuti; la poesia che trova la strada per dirsi e per dire tutto ciò insinuandosi in una metrica varia, nel dialogo, nella soggettività meno individualistica, ossia la poesia che ha gli strumenti stessi del poetare o della sperimentazione poetica…

L’ultimo libro di Eugenio De Signoribus, Ronda dei conversi (Garzanti, 2005), nell’inserirsi in piena sintonia dentro la sua voce (che ha già connotato Altre educazioni, Istmi e chiuse, Principio del giorno, in parte anche Case perdute e, forse, La pista di Sisifo) con una intonazione di “poesia civile”, percorre – come poche altre voci poetiche della sua generazione e, in ogni caso, di quelle venute alla luce nel secondo Novecento -, un chiedere che ci riguarda da vicino, precorre delle domande che vanno alle radici del vivere (creando un solco grande dentro la poesia civile) e del vivere qui, ora, in questo mondo, con gli ordinatori, i gestori, i portatori, e tutti gli -ori che vorrebbero stabilire (e stabiliscono e determinano, giorno per giorno e con protervia) gli orrori e le loro coperture.

Tutto ciò e altro appannaggio di questi ori, che agiscono perfino con nonchalance e superficialità, perfino con il sorriso sulle labbra, persino dimenticando le profondità dell’essere o volendo non sentire una loro appartenenza al genere umano, stravolgendo i tempi, il tempo, la memoria con la giaculatoria tutta insita al meglio nell’inganno e, al peggio e più diffusamente, in un lucido potere. Potere, appunto, dal nucleo e dai nuclei riconoscibili e non metafisici.

Resiste un passato? Resta una memoria, quella dell’infanzia, per esempio, quando si vedeva <<tutta la terra che immaginavamo e anche di più>>? Si siede vicino, accanto, la nostalgia?

Affidarci ad esse o vedere la solidarietà (o l’amore) per un altro inizio che scarti il possesso (<<chi non può averti t’uccide>>) e veda il desiderio nella sua forza primigenia di vita?

Il punto di domanda può diventare una possibilità, può scivolare nel riscontro, può essere una risposta di ricominciamento, contornato da una religiosità che – non abbracciando un dio specifico – veda nell’altro resistente, sopravvissuto, pellegrino, in una parola, nell’alterità, un viaggiatore a sé uguale, un viaggiatore che svolta per un’altra strada, per un oltre: <<scrutando al termine della strada, quando questa / a delta se ne va, un punto verso cui portare il passo, / egli letteralmente abbrivida… / il già percorso rapidamente ammuschia, il sacrificio / è in un fondo di bottiglia…e sempre più s’assottiglia / il margine verso i gobbuti sentieri… // non c’è più tempo e non c’è più che inizio / tra folte cannete e ombre forse umane>> (Oltre)

Appare la ricerca di un passaggio, pur stretto, verso una sosta, una fine-pena pro-vocata e voluta dai viaggiatori stessi (popolo è parola presente in questa raccolta di poesia) nell’ascolto del sé e dell’altro. E <<chissà se, dopo un tortuoso arrancare, si arriva / a un punto di snodo da cui la vista può scorgere / un luogo di chiara sosta…>>.

l’immobilità di un evento sconosciuto…

E via elencando, sull’inventiva tutta personale o sull’eco di passi sui sassi, un’eco adacquata nella memoria di una giornata passata lassù.

( M. Lenti)


 

I Monti Azzurri di Stefano Taffoni

Nella fotografia di paesaggio si può correre il rischio, da un lato, di restituire uno sguardo illustrativo a tutto campo, dall’altro, un confinamento dei particolari ingabbiati in se stessi. Il paesaggio potrebbe, dunque, restare immagine fissa e non ripartecipare il «piacere del testo»: nucleo che Roland Barthes riferiva alla letteratura e alla poesia, ma che – negli ultimi decenni – è stato esteso, nella più esperita centralità del corpo, ad altre arti. Invece l’emozione, tratto di lettura… I Monti Azzurri di Stefano Taffoni sono la pietra che, in bilico nel pendio, sembra in movimento; la montagna contemplata dalla Grotta dei Frati; un albero che sta scrollando da un ramo la neve al sole; S. Maria in Pantano in attesa di una scoperta; il Fontanile che sposta lo sguardo fuori quadro, verso le mucche; la cascata del Fosso il Rio che se ne scende con una indifferenza tutta sua; la gola del fiume Piastrone, il ricordo lontano di un Orecchio di Dionisio; il lago di Pilato…

PRIMAVERA

Falce di luce la chiamò il poeta

questa primavera, forse crudele equinozio;

fa ch’io viva per sempre

nello scatto, ch’io viva.

(L. Santoni)

“LA LUNA” E I SUOI ARTISTI AL CASTELLARE

Mostra Collettiva di:

Alfredo Bartolomeoli

Antonio Battistini

Pietro Capozucca

Rossano Guerra

Sandro Pazzi

Riccardo Piccardoni

Athos Sanchini

Sandro Trotti


 

Da più di un decennio artisti e poeti si sono provati in plaquettes dense nella loro forza e proposta. Come accade quando un genere si insinua in un terreno già esistente (edizioni d’arte con testi letterari e poetici o testi poetici con opere di pittori o di incisori) ma coagulato in un canale di più larga trama divulgativa, i sodalizi si sono intensificati ed espansi, non perdendo tuttavia nulla del rigore dovuto e cercato: proprio nell’endiadi arte-poesia, quando l’una e l’altra si espongono come tali e, contemporaneamente, espandono insieme intensità.

L’occasione di una mostra al Palazzo ducale di Urbino (sala del Castellare: un luogo che ospita da decenni mostre di rilievo nazionale e internazionale) ha permesso di vedere nel suo farsi e determinarsi l’attività dell‘associazione culturale “La Luna” (che fa capo a Sandro Pazzi e a Eugenio De Signoribus) con i suoi artisti e i suoi poeti, negli splendidi libri d’arte o – secondo gli artisti stessi – Quaderni delle Grafiche Fioroni di Casette d’Ete (AP): che « si impegnano su un terreno assai classico, tra poesia ed arte, all’incrocio di un visibile e leggibile che è stato uno dei perni essenziali della nostra storia. […]» (Stefano Verdino, Catalogo della mostra La luna e i suoi artisti al Castellare, Grafiche Fioroni e Comune di Urbino, 2003).

La mostra è nuova a tutti gli effetti con incisioni (qui presentate per la prima volta) di Alfredo Bartolomeoli, Antonio Battistini, Pietro Capozucca, Rossano Guerra, Sandro Pazzi, Riccardo Piccardoni, Athos Sanchini e Sandro Trotti.

Se in molti degli artisti si rintraccia la provenienza dalla Scuola del libro di Urbino nel nitore del segno e, per esempio, nei bianchi che entrano a chiaroscurare la lastra stessa, in tutti il tratto si fa contorno, disegno, sottolineatura, sfumatura di paesaggio o di figura, o elemento della natura, talora in colore, che determina poi movimento anche intcriore, riflessione, meditato riscontro.

Lo stesso, sensìbile, sguardo e la medesima leggerezza incisoria nelle opere degli autori (oltre ai già citati: Ciarrocchi, Bruscaglia, Berto, Manfredi, Frasca, Cifani, Bellagamba, Torcianti, Pace, Bompadre, Castillo Mariano, Cuervo Pando, Franci, Zampetti, Giovanna Forlani, Bianco, Ricci, R.Rossi) che accompagnano o segnano i testi dei poeti usciti nei Quaderni, trimestrali, dei sette anni di vita de “La Luna”, curati da Agostino Cartuccia, artista in proprio e scultore.

Poeti di generazioni diverse, di differente “sentire”, di parola tentata in scaglie di sentimento o di parola raccolta come lettura di un intorno contornato di perdimenti.. .amici di una «valle non straniera» dallo «sguardo non indifferente né contro… ma partecipe e solidale verso gli individui e il mondo» (De Signoribus): Di Biasio, Giudici, Tomlinson, Capodaglio, Ghiandoni, Bonnefoy, Luzi, Benzoni, Lenti, Ferri, Fazzini, Ferraris, Charles Wright, De Biagi, V. Rossella, T. Alberti, Airaghi, E. Testa, D’Angelo, Dalmati, Di Palmo, Parronchi, Bozzi, trimeri, Citton, Vegliante, Ederle.

«La Luna e i suoi artisti» ha fatto conoscere ai molti visitatori anche le edizioni d’arte e quelle di pregio. Per le prime: Altre educazioni di Eugenio De Signoribus e gli otto incisori del nucleo storico e vitale dell’associazione (1999); Sole e mare con nove testi inediti, tra cui uno di Mario Luzi, e gli otto incisori già nominati (2000); Alfredo Bartolomeoli – Segni incisi, 9 incisioni di Bartolomeoli, 9 poesie di Luciano De Giovanni e testo critico di Simona Morando (2001). Per le seconde: Ariette occidentali di De Signoribus (1996) con diversi altri incisori oltre quelli citati; Prose inermi 15 prose inedite di De Signoribus (1998) con alcuni incisori dei citati e altri; Omaggio a Carlo Bo con 23 poesie e 23 incisioni originali a cura di Bruno Ceci (2001).

In mostra anche altri “quaderni” di formato tradizionale (testi di un singolo autore o di vari autori – Alvaro Valentini, Giocondo Rongoni, Romano il Melode tradotto da Alessandro Parronchi, Beatrice Solinas Donghi -; incisioni originali) e pubblicazioni divulgative (edizione tipolitografica delle edizioni d’arte). Sì che ne è uscito il volto più completo delle Grafiche Fioroni, una editrice che si pone tra le notevoli e nuove del panorama italiano (e marchigiano, già ricco di suo nella proposta e nella raffinatezza) nell’ambito di una ricerca di segno e di parola che rilasci senso e traccia.

Maria Lenti

Saggio di Maria Lenti:

La poesia di Tolmino Baldassari

I PASSI, LE TRACCE

Pubblicata su: IL PARLAR FRANCO

2 ANNO II – 2002 – Rivista di cultura dialettale e critica letteraria

PIER GIORGIO PAZZINI STAMPATORE EDITORE

Diffusa in tutte le raccolte di Tolmino Baldassari una domanda, esplicita o sottintesa, diversificata nelle forme e nelle tonalità e nella melanconia, puntuta o distesa, rincorsa o affermata da subito: dove sono le voci, le persone, i gesti del quotidiano, i lavori e i valori, gli amici, l’infanzia degli incanti, l’adolescenza delle scoperte, la gioventù della prima consapevolezza esistenziale, le stagioni continue e variate che formano, ora, il senso e la pienezza della vita interiore a fronte delle assenze che la vita esteriore registra?

Ad impronte leggere, a passi lievi in un tempo senza tempo che ha al suo interno anche le presenze vive, quasi sospese nelle atmosfere di una memoria che, avvalendosi del ricordo, si dilata nel suo intorno, i versi rilasciano e fanno sfilare la domanda: tutto è talmente sfibrato (e non solo perché è intervenuta la morte), nella impossibilità di un reificarsi e di un ritorno, di un nuovo esserci di questo tutto per poterlo riamare nei fatti o anche ripossederlo, da averne solo filamenti, l’essenza dolce come miele, l’eco cristallina di una “giostra grande” che c’era ed è stata ed ha girato sans cesse. Quando?

Così appaiono, la poesia di Baldassari e la risonanza delle intermittenze del cuore, e così anche sono, cosparse e soffuse di una liricità che ritraccia le movenze di un’esistenza piena di vivencia dove la leggerezza vissuta ma impalpabile ed ora intoccabile, di una condivisione delle cose e delle giornate, anche in proiezione verso il futuro, e di un sentimento compartecipativo di eventi e situazioni corali, di movimenti di luci e di cambiamenti del giorno e dei mesi, era la leggerezza del sentirsi con gli altri, nel flusso della stessa storia, della stessa vicenda umana. Se ora, alla distanza, ogni persona-cosa-avvenimento risulta immagine distante dalla realtà, ossia sogno ma proveniente da un invaso particolare – un “domestico e umanissimo gravitare del cuore” – e la memoria compie il suo rito di riappropriazione del perduto, il primo moto consiste nel filtrare l’emozione al setaccio del pensiero per chiedersi, magari in silenzio e sottacendo l’esigibilità, che cosa ne sia stato di tutto e di tutti.

Ma “sofferenza e sentimento della perdita”, pubblico e privato riassorbiti nel male di vivere e “sentimento del tempo” subiscono per lo più uno scatto di risarcimento, che permette di recuperare al presente il perduto, proprio nella variazione, e non di rado grazie ad essa, del tempo verbale: la partenza su un passato risulta, alla fine della poesia, un arrivo su un presente, così che non tanto è richiamato in essere ciò che non è più, quanto è il non essere ancora a farsi carico di quel non più essenziale ed estremamente necessario nel silenzio che contorna il poeta e l’oggi.

Un silenzio che è silenzio di umanità., assenza di percezione del vivere, dell’essere accorti su quanto ci circonda e ci nutre di vitalità: gli animali, le creature della terra, gli elementi della terra stessa, gli oggetti (sedie, tavoli, cucina, strumenti di lavoro, ecc.) che suppongono un ‘insieme’ che dirada, di molto, la solitudine e fa essere più pungente, semmai, la malinconia del rumore inarrestabile teso, davvero un troppo pieno, a coprire il vuoto.

Il che non significa avere dimenticato la storia o essere estranei alla storia di tutti i giorni. È che il tempo presente genera il tempo perduto e questo diventa il sostrato di un nuovo tempo. E che, della poesia di Tolmino Baldassari, la realtà attuale costituisce il retroterra di quel vuoto. Sarà la poesia stessa, il suo assunto, il suono, a colmare questo nulla contornato di debiti con la pienezza di realtà introiettate, innervate nel corpo (del poeta e della poesia) e non semplice fondale o idillio del mai più.

Sfugge questa ‘realtà’ ai molti vivi sommersi da eventi stranianti: è una realtà inguardata, fatta di voci, di aria e di nebbia, di luci e di ombre, di visure e trasparenze che hanno bisogno di essere ascoltate, di sottili legami da riconoscere e nominare e da vivere non per essere fuori dalla storia ma per costruire un’altra storia, un altro vivere, una diversa esistenza, mantenendo il legame con le persone, gli oggetti, il vissuto del passato nel suo succo e nel suo frutto di vissuto.

Se il luogo e il tempo, talora lo spazio, del passato sembrano consegnare le figure e le immagini alla nostalgia, i versi ne fissano l’esperienza emozionale – asciutta e limpida ella sua essenza recuperata e restituita poeticamente nel suo valore antropologico, fuori dai puri mitologemi dell’elegia fine a se stessa che potrebbe essere filata e sfilarsi tra l’io e i luoghi incontaminati dell’infanzia, tra l’io e le voci e i personaggi e gli spazi di quella giovinezza.

Dalle poesie, nel medesimo istante emozionale, si sfila un tutto che la memoria pone nel presente e lo ricolloca come presente della coscienza, meglio come coscienza del presente, senza indugi: infatti l’ultimo verso termina sull’oggi un’azione di ‘tanto tempo fa’ e perciò stesso posta ad inizio della poesia.

Entra, questo tutto, in una storia minima, quotidiana, appartenente al passato – ma di un passato depurato dell’elenco cronachistico, delle esteriorità e delle intromissioni, avvertite in sottofondo come tagli e lacerazioni, che hanno deturpato i paesaggi, stravolto o sconvolto il paesaggio delle comunità e del sentire comune -, ma tanto viva da costituire il tessuto della coscienza del presente e la trama di un’utopia, nel senso di un luogo (mondo) che si dischiude proprio per non avere in sé quelle ‘voci’, anzi perché è chiuso a quelle ‘voci’.

Bisognerà, allora, che il silenzio sia rovesciato nel suo assunto: il silenzio come pausa dal chiasso esterno e dai rumori, dai clamori, per riafferrare il significato di una esperienza che riporti coralità e comunità”. E che riporti la vita che si fa mentre viene vissuta.

L’utopia diventa il luogo di un desiderio di forte intensità e diviene luogo possibile (se il desiderio è, come è, la molla del fare, del muovere e del muoversi, dell’agire più che del gestire), che apre un altro senso al mondo: utopia come impossibile che si fa possibile se…; utopia come non luogo inesistente e dell’inesistenza o luogo della visionarietà e dell’onirismo, luogo dell’impossibilità.

Nella poesia di Tolmino Baldassari si apre l’utopia del primo luogo, affidato all’uomo, al suo esserci con l’insieme dell’esperienza e del passato, con i sogni e con la figuratività lasciata da chi s’è fatto esempio di valore e di lavoro, con le persone e i luoghi e gli spazi, anche mentali anche del ‘sogno’, che immettono nel giorno e permettono di stare dentro e pensare e agire per e su possibilità non ancora realizzate.

Potrebbe sembrare una contraddizione, una mossa della memoria che chiede, per albe non più tali e per tramonti che persistono, a se stessa l’esistenza di ciò che non è più (e che magari, forse, nemmeno è stato: tanto è l’inganno, anche, che la razionalità può giocare nell’attimo in cui essa tenta di decifrare le tracce e i passi di quel non più).

Ma lo scatto della memoria sulla neve, sull’aria, sul chiaro-scuro della luna, sulla trasparenza del vetro delle finestre, sugli animali, l’ape per eccellenza, sulle persone e … il passo lentamente si fa traccia e diviene impronta di un pensiero che contiene cose e quel passato e, per il movimento determinatosi tra la situazione (presente) e il ricordo, contiene anche un lascito che, scivolato dal passato sul presente, ha tracciato la sua scia. Non solo vi si può leggere e accettare (o rifiutare) la storia, ma vi si può camminare e imprimere i propri passi: è la scia, infatti, che ha permesso di definire il passato e che permette di trovarsi civili nel presente.

Luigi Bartolini ” Spiegato ai giovani”

pubblicato in : Transito e Forza del Ricercatore Operoso

Luigi Bartolini e la critica nel centenario della nascita

a cura di Leonardo Mancino

Stamperia dell’Arancio – 1995


dal saggio di M. Lenti:

………

Le poesie, i racconti, il romanzo di Luigi Bartolini sono la narrazione delle infinite occasioni vissute, pensate, realizzate, còlte, variegate della sua vita. Ma in questo il nostro scrittore ha operato in modo tale da far comba­ciare la sua esistenza, il suo vivere, con quello dei suoi “personaggi” in un tempo lungo di avvenimenti, in spazi diversi ma segnati dalle tracce di pae­saggi riconoscibili, in momenti politici e sociali fortemente connotati nel quotidiano e nella storia minuta.

E, nonostante qualche “adesione” più o meno convinta ai tempi che cor­revano (talora fatta all’impronta, per un riconoscersi immediato in certe posizioni, subito rifiutata però nella pratica o nel prosieguo della riflessio­ne), Luigi Bartolini si è mantenuto su una coerenza per lui irrinunciabile e di fatto per noi visibile: un lavoro instancabile con il bulino sulla lastra, con le tele, con la carta bianca. La pittura, l’incisione, la scrittura per un esserci con tutti i suoi valori “tradizionali” persi o minacciati dal secolo e dalla sto­ria, dai cambiamenti e dalla protervia dei tempi. Un esserci senza spendersi inutilmente, con una caratteristica di investimento del proprio vivere così … marchigiana (e di altri certamente. Ma qui sottolineata perché tante volte richiamata da Bartolini nei suoi scritti sui suoi amati, benché in modo I scontroso, conterranei).

SU E DA UNA POESIA DI GIORGIO CAPRONl

In: ACQUA Storia di un simbolo tra vita e letteratura – a cura di Guido Garufi e Antonio Santori

 

L’IDROMETRA E LA LIBELLULA

SULL’ACQUA INCERTA E LUCIDA

In – Poesie – 1932-86 – Garzanti

 

Di noi, testimoni del mondo,

tutte andranno perdute

le nostre testimonianze.

Le vere come le false.

La realtà come l’arte.

 

Il mondo delle sembianze

e della storia, egualmente

porteremo con noi

in fondo all’acqua, incerta

e lucida, il cui velo nero

nessun idrometra più

pattinerà — nessuna

libellula sorvolerà

nel deserto, intero.


 

dal saggio di M. Lenti:

… L’onda, l’apparenza più eclatante e visibile, il movimento apparente più appariscente, mentre darebbe un rapido scatto, darebbe anche una regressione. Onda, evento ingannatore. Il lucido Narciso è consapevole anche di ciò: la sua solitudine pervasivamente totale si fonda sulla fissità e sull’immobilità nella constatazione della profondità della superficie. In più sa che le onde non si incontrano mai [1] tese come sono su una loro costante e riaffermata unicità. E nell’unicità albergano, sovrane a rafforzare Narciso, l’incomunicabilità e l’impossibilità della condivisione.

L’onda non prevede l’evento incomunicabilità; essa è proprio il modello della sua epifania. Peraltro, l’onda è il rilievo – dice il vocabolario – che si sviluppa sulla superfìcie dell’acqua: per estensione, dunque, ancora più effimera di qualsiasi testimonianza. (Testimonianza, poi, non significa necessariamente incidenza).

Narciso, signore del Novecento con la sua solitudine e l’incapacità di uscirne o forse la volontà di restarne dentro anche per il muro degli altri Narcisi, con una sorta di desiderio di non essere coinvolto nella storia, che è storia di vittime [2] e di carnefici, Narciso parete lui stesso della società o reso impermeabile dalla società, un soggetto dunque alla fine di tutto, si perde e scompare. L’idrometra e la libellula segneranno ancora i loro limiti affidandosi a tracce di vita tutte già individuate e determinate.

Forse un altro Narciso, consanguineo dell’altro, riprenderà a testimoniare oltre Narciso stesso, avvertito ormai del sopra della superficie e del suo sotto, ma ancora incerto e lucido sull’emozione non esplosa. Eppure l’emozione completerebbe il sentimento suscitato dal sapere. Negata invece, l’emozione non si lascia vedere, non si rompe in onda, in pianto, in ira, in disperazione, in imprecazione o deprecazione. …

[1] Riferimento a Le onde di V. Woolf, dove sei personaggi parlano parlano senza comunicare mai.
[2] Titolo di un libro di poesie La storia delle vittime di A. Gatto.

 

CONTRIBUTO di MARIA LENTI

Ponti mobili di Carolina Carlone si snoda in versi centellinati, a volte a cascata, meditativi (per gli spazi bianchi), quasi in bilico a «tentare la traversata/lungo rossi faraglioni// Inseguendo l’acqua/ che capricciosa// da sola viene e sa».

Poesia che dice e vuole significare, in una sua piana, necessaria, intensità, nei rari squarci lirici (se non nella metrica certo nella iconografia: « Ora non c’è il garbino//In questo imbuto/che inietta alla pianura/Il sapere delle rotte aperte»).

Ponti mobili, l’andare e il tornare, rinnovati e arricchiti, o un mai partire. Ponti mobili, ovvero ponti che si alzano e si richiudono, aprono all’oltre e, contemporaneamente, lo fermano, permettono passaggi da una riva all’altra ma pure li interrompono: dietro comando, certamente, ma forse anche di soppiatto nel tempo lungo andato (o che resiste sotterraneo nei moli, nelle darsene, lì dove il movimento è sinonimo di viaggi sempre iniziati e mai conclusi e dove un guardiano capriccioso, spietato o gioviale, fa girare marchingegni e mulinare onde). Si trovano, questi luoghi, in città di mare nei fiumi navigabili delle pianure, ma contornano anche i ponti levatoi (reali – per esempio quelli del proprio ego o dell’ego di potenti – o delle favole) anch’essi con la loro mobilità o la loro ruggine, così come tutti i ponti, metaforici ed esistenti.

Mobilità, allora, dell’esistenza e dell’immaginazione e del desiderio, in un incontro teso a dare il senso di un insieme e di una frammentazione, d’oggi e, dunque, di ogni tempo, quando si raggrumano ricordi, conoscenze, sguardi nella profondità delle cose e dei lavori e dei libri, della storia con i potenti, innominati ma avvertiti, di sempre.

Se si può andare, in Ponti mobili, sulle tracce della Ravenna dei ‘ponti d’oro’, città in cui l’autrice è nata e vive, o di certi slarghi della pianura e del suo paesaggio urbano-industriale, anche nelle dismissioni e nei danni, non di meno questi luoghi sono – come scrive Pietro Civitareale – luoghi dell’anima e della poesia e perciò aprono ad altro: alla «linea del discorso metastorico, rappresentato, da un lato, dal motivo dell’attualità in continua trasformazione (che chiede attenzione con i suoi eccessi e le sue asimmetrie) e, dall’altro, dal motivo metaforico, che designa il livello zero tra il polo mistico-culturale e quello realistico-documentario; una linea che si sviluppa, lungo le varie scene e dentro le varie voci, come un filo cangiante ma geloso della propria individualità, ponendosi come una traiettoria dei temi inerenti al “luogo della poesia”».

Aprono alla ricerca di momenti e punti in cui ancorare interrogativi, silenti per il timore, anche, di vederseli fuggire dal cuore anche dell’infanzia, perché strappati da una concretezza tutta ravvisabile nella corsa e nell’affanno di violenze che portano a Bagdad (il corsivo è mio) o che, solo per un tornaconto di sopravvivenza tutta egoistica (ancora una violenza agli altri), salvano il piccolo Nazim che «fa il pane» per i suoi assalitori.

Poesia ricca, colta (il paratesto informa dei supporti storici e artistici e letterari e biblici, ecc.), che – ricorro al ponte-simbolo – immette in terreni e territori da scoprire anche per una sorta di visività, secondo una lezione diffusa nel Novecento italiano più aderente alla necessità di trasformare la comunicazione e gli stilemi poetici e in seguito re-individualizzata, almeno a partire dagli ultimi decenni. Poesia, questa di Ponti mobili, che può apparire talvolta timorosa di espandersi: ma basta entrare nel ritmo interiore dei singoli versi per cogliere le ragioni (e le emozioni), i tremori di passi sui ponti mobili di questo nostro tempo.

Maria Lenti

Uscita sul sito: www.carolinacarlone.it

Su: Dina Del Curto

Presentazione della mostra “Incontri e viaggi”


PROVINCIA DI ANCONA

Assessorato alla Cultura e Beni Culturali

“Sonatori di Udajpur ” – 1995 – china acquerellata 12×16


 

Dina Del  Curto

INCONTRI DI  VIAGGIO

Dina Del Curto vive e lavora ad Osirno.  Ha studiato  e si è formata artisticamente a Perugia e Firenze. Numerose (a cominciare dal  1946) le esposizioni,  collettive e individuali, in Italia e all’estero, numerosi i premi, le segnalazioni, i riconoscimenti, i  contributi critici sulla sua opera (olii, acrilici, acquerelli, tecnica mista).


 

Gli uomini, le donne, i paesaggi di Dina Del Curto, dall’emozione limpida e vivi di verità nel loro mondo lontano (Cina, America Latina, India, Siberia), muovono interrogativi sul senso di una vita colta nel suo essere da sempre o di un’esistenza vista nel suo farsi e dipanarsi quotidiano.

Ma il dato reale (dei costumi, del lavoro e delle atmosfere), pur riconoscibile anche per la sottile e incantata differenza cromatica, sfuma nello sfondo neutro: tra il momento vissuto e quello rivissuto intercorre la distanza che induce la realtà a sottrarsi per divenire arte.

«Per scrivere delle buone poesie bisogna avere dei ricordi. E bisogna dimenticarli … E bisogna avere la grande pazienza che tornino» fa dire Rilke al suo Malte Laurids Brigge. E tornano gli incontri come ricordi che chiedono parola: ciò che si chiama differenza è una differenza arricchente, che proietta altre vicinanze, mentre il paesaggio si fa background, piega interiore.

Così, nel solco di una ricerca anche del novecento recente (le biennali di Venezia dedicate alla natura o alle identità, per esempio) – su una tradizione che dell’altrove ha fatto ragione di vita e di arte: Gauguin, per tutti -, il viaggio risulta in Dina Del Curto filtro e scoperta: di altri mondi e, insieme, del proprio sé nel mondo. Questo, nel segno pittorico ricco di variazioni che restituisce volti e veli, movenze armoniose dei corpi e gesti antichi, sguardi, erbe e piante che resistono al vento.

L’incontro immette allora nel flusso di un canale caldo in sintonia con la vita, aperto al nuovo in cui siamo pescatori di risposte. In tale sconfinamento sarà giocoforza sentirsi ed essere stupiti su strade ancora da percorrere.

Maria Lenti

“MOVIMENTI” DEL PRESENTE

NELLA POESIA DI EUGENIO DE SIGNORIBUS

Nella sua poesia Eugenio De Signoribus[1] percorre e attraversa il presente della nostra storia, i suoi cambiamenti, le mutazioni – non avvertite ma avvolgenti – di costume e di habitus, le metamorfosi esteriori ritenute profonde e soltanto invece apparenti, i minimi spostamenti[2] all’interno di uno stesso luogo e spazio, le inarrestate prevaricazioni mass mediatiche che imprigionano la mente e l’anima, le precipitazioni oscure del nostro assunto quotidiano in una giostra colorata e vorticosa.[3] Uno scarto grave e di non scarsa implicazione tra l’apparire e l’essere, tra il niente e l’esistere, tra il vivere e il lasciarsi vivere credendo di vivere e nemmeno tutto per colpa individuale quanto per l’opera di un non immediatamente rintracciabile ordinatore e dignitario[4].

Sì che una costante di epoche e di secoli – il cambiamento – si è configurata epocale in pochi decenni , in quest’ultimo decennio addirittura saltando ogni possibile dimensione di continuità: almeno nelle apparenze, nel volto sfrontatamente visibile dell’esteriorità, nella relazione umana, nella comunicazione e nella riflessione sui fatti,

Ma non ci si inganni quanto alla essenza della vita e della esistenza. Gli appagamenti appartengono alla sfera della stupidità o, a voler essere generosi con i propri simili, alle illusioni. I “movimenti” appaiono ma non sono, come nella ripetitività del tutto naturale degli animali: «a che aspirano formiche sempre in moto / in fila o sparse, a un obiettivo fisse // mentre l’ape solfeggia sul geranio / e il ragno fa l’acrobata sui fili… // che si chiede la mosca sullo specchio, / la forma è più complessa del ronzio… // l’aria qui d’intorno sembra ferma / e invece spela, sputa sulla faccia // e porta a Delfi l’inutile pestìo / cioè il pensiero degli imponderabili»[5].

Nessun inganno: nel simbolico degli animali si intravedono slittamenti ma non cammino, annaspamenti ma non scatto vitale di allontanamento, quello animato cioè da spinte razionali ed emotive, giocolerie e non pensosità per lo smarrimento. Sul perduto perduto nessuno si ferma mentre si rincorre chissà quali magnifiche sorti e progressive.

I “movimenti” del presente risultano essere un pestìo appunto, in cortili, entro confini della vista, in un verbario domestico, nel traffico domestico, in mappe d’animali, in una bolla d’aria, a balze, nel crepaccio, su marciapiedi, in una scena di film, nelle vaghe orme, dentro un fazzoletto, un androne, in una zona indistinta, in un angolo, dentro stanze, su una superficie della carne, persino sopra un armadio o dentro un libro o in groppa a un libro o nel polmone dei libri, su un lembo di spiaggia, nella soglia del sonno, nello spazio d’un punto, tra fetali spine, nel campo altrui, su bagnate tele, nel teatro, sotto una mantella come un tetto, nel traffico domestico, sulla spalla, nel centrocampo ecc.[6]

E, rovesciando, si assiste e si vive il pestìo di un presente sovranamente e scioccamente occupato dalle parate di vario tipo e genere; il pestìo di mostre di inconsistenze trasformate in “epifanìe” e in grandi eventi, subito svaniti appena spenti i riflettori, peraltro di nuovo subito accesi su altro evento di eguale peso piumale; il pestìo della meraviglia per novità vecchie quanto il mondo, di passi e tempi e modi e giochi e giorni per tutti, tutti uguali nel divertimento costruito ad “arte” dall’esterno; il pestìo di richiami tanto audaci e falsi quanto seguiti anche per far tacere il silenzio di anime stordite e ferite, della grancassa dei mezzi di comunicazione; il trepestìo del rimbombo del vuoto nella credulità degli astanti: «i cerimoniosi s’affacciano / sul fertile dolore del fuori // portano le loro acque mentali / arricchiscono il corso degli onori // esercitano estrosi la loro pietà / hanno necessità della triste sorte // preparano il tempo della loro eternità / e sono già dentro la più viva morte»[7].

«Dentro la più viva morte» già e soprattutto nei fatti stessi, nei fatti senza altra specificazione se non quella dell’atto agito e gestito.

Le poesie belliche di Istmi e chiuse rimandano, per esempio, forse all’assalto delle guerre e della guerra del Golfo rimbalzata nelle nostre case attraverso i megafoni e gli altoparlanti dei “vincitori”: delle vittime, degli innocenti calpestati e uccisi nulla ne viene a chi è a sua volta vittima inconsapevole travolta dal chiasso dei comunicatori e dall’orrore nemmeno nominabile. Una parte della storia viene taciuta e occultata nella ripetizione della protervia di sempre: «sempre vengono a te o dio assediato, / i cupi gladiatori, i fingitori // inginocchiati, i portatori d’orpelli / lampade fuochi, faville, appelli… // essi, i predatori-predatori, attori // dello stesso stampo, sotto i riflettori // con le mani sugli occhi // che accendono voti nelle latrine da campo»[8].

Mentre i “movimenti” degli ordinatori, dei dignitari di corte, dei gladiatori possono essere riconosciuti e in modo incontrovertibile, dunque giudicati, i “movimenti” del presente di chi assiste, allora, da un lato sono flatus vocis e possibilità di straniamento per un alibi che consente di vivere ma non di decidere, che permette di recepire ma non di determinare; dall’altro sono spostamenti di prospettiva e di direzione, una freccia ben puntata luminosa indicata dai dignitari e seguita dai già affidati, i devastati, i vincitori[9] persi all’umanità e condizionanti l’umanità.

 

Nel “perdimento” di misure di ragione e di sentimento è la condizione dell’uomo presente e nessuno può dirsene fuori. Non valgono illusioni di sorta[10] alla coscienza vigile. De Signoribus scruta dentro il “perdimento” dicendone la risultanza: con un affetto[11] profondo, asciutto e illacrimato e dunque tanto più accorato, verso il paese che ci riguarda tutti e tutti ci contiene[12].

Ma in questa dispersione epocale, soggettiva e collettiva, terribile, vale ancora un “movimento”: quello del pensiero, nel caso della poesia che si interroga[13], che nel dire il fuori non acquieta né consola magari con il ricordo di un passato in quanto tale mitico, con il ricorrere di paesaggi, di sentimenti del bello e del buono e delle “illuse gioventù”, ma pone l’uomo e gli uomini nel conflitto, nel vivo dell’orrore anche senza direttamente porsi sui gradini di chi chiede il verso del nostro stare, di chi guarda non nascondendosi, di chi ragiona anche soffrendo[14]: talora con un sorriso di compatimento, a volte con umana partecipazione, più spesso con ironia[15], talvolta con chiarità, e pungolo accanto come a rimproverare a Edipo l’occultamento della verità e a Narciso un cieco falso amore di sé.[16]
Ma sempre senza indulgenze, soprattutto per i colpevoli, mentre umana solidarietà il poeta mostra per i suoi simili e gli umiliati: «quando lo sguardo si frattura / da una piega di luce, vi scrivo // della vostra nascita a me / del mio riconoscervi come sodali // punti di sutura, bene nati, / in soste appena mobili vocali // in ascolto trepido di voi / molto loquaci eppure forse sordi // disposti come avete voluto / ai primi fortunali discosti // o volati».[17] Un desiderativo si libera, inoltre, nella sodalità: che «i non affidati / i rari / i non ancora devastati / i non vinti vincitori / trovassero la pietra miliare / il punto di raduno / magari / sopra la più dolosa dolina / per deporvi la dottrina dei nomi / di corpi che infieriscono su corpi / […]» [18]. Il desiderativo contiene, allora, il senso di un non completamente perduto e distrutto: qualcuno, diversamente consapevole e cosciente, non sottomesso e non arreso[19] può arrivare ad uno spiraglio, ad un varco, ad una luce «inerme» che brucia nel «mondo inospitale»[20].

Il desiderativo esprime altri “movimenti”, rispetto a quelli falsamente attuati e però cantati, osannati, accettati senza pensiero, introiettati a forza di imboniture della ragione e anzi fatti ingozzare da un capitalismo vorace e mascherato da nutritore. I “movimenti” diventano agiti dai soggetti e diretti a… un’apertura[21] della e dalla sconfitta, a un accerchiamento del caos, ad un altrove non contenuto in qualche cosa di specifico e di già delineato ma certamente non impoverito dai limiti imposti dagli ordinatori, dalle catene dei dignitari, dalle assurdità dei vendicatori del passato in nome di una necessità del moderno dichiarata a viva voce, gridata sguaiatamente dagli schermi, scoperta in chissà quali pieghe di macchine mangiatutto.

Tutti da compiere, ma non impossibili, questi “movimenti” volendo per di più non finire nelle secche [22] ancora più tremende di un futuro prossimo. In tali “movimenti” più adagiate sembrano le poesie di AO: non che sia cambiato il sostanziale incattivimento o la cattività dei soggetti, ma è filtrata la «luce inerme» a riconoscere come uguali e sodali i vicini, i privi di voce perché sottratta proditoriamente, quelli ancora ricchi di un immaginario, i prossimi, i camminatori di stelle, i cercatori di una terra di nuvole, i non ancora risucchiati dalla pubblica piazza degli urli, i “conservatori” – nel senso letterale – della mente anche per i ricordi e la vivezza, la “vivencia” del fuori perduto e delle case perdute.

In questi ultimi casi i “movimenti” saranno reali, potranno essere reali e, forse, anche le pieghe e i calanchi della vita, oltre ad avere una loro ragione ed una loro sofferenza, potranno ritentare di nuovo un perché sul presente e sul futuro di questo presente. Sui destini ultimi la risposta sarà di nuovo in sospensione. Ma umanamente vale il tentativo, anche dentro la poesia[23].

Maria Lenti (1999)


[1] E. DE SIGNORIBUS, Case perdute, Ancona, Il Lavoro Editoriale, 1989; Altre educazioni, Milano, Crocetti, 1991; Istmi e chiuse, Venezia, Marsilio, 1996; Ariette occidentali e prose inermi, in Segni verso uno, Casette D’Ete (AP), Grafiche Fioroni, 1998. Nel mio testo le raccolte sono , rispettivamente, indicate così: CP, AE, IC, AO.
[2] «Spostamenti» è intitolata una sezione di IC che contiene due poesie dal significativo titolo: Nave domestica e Clamori d’Engadina. Anche in AO, precisamente in prose inermi, vi sono quattro «spostamenti».
[3] Si può constatare, nei testi delle raccolte di De Signoribus, la prevalenza del presente indicativo. Anche in Case perdute, il passato è nominato nella sua assenza, nella presenza dell’oggi. Cfr. M.LENTI, Sibille spiritate e mute, in «Pelagos», 4, 1996. Sulla lingua e sulla metrica di De Signoribus si vedano: F.ZINELLI, rec. a Istmi e chiuse, in «Semicerchio», 15, 1996; E.CAPODAGLIO, rec. a Istmi e chiuse, in «Strumenti critici», 2, 1997; G.GARUFI, Sulla scrittura di Eugenio De Signoribus, in «Hortus», 19, 1997; S.VERDINO, Il ritorno dell’endecasillabo, in «La Rivista dei Libri», 7-8, 1997; E.ZINATO, Una straniata epifania: il «romanzo» poetico di Eugenio De Signoribus, in «Microprovincia», 35, 1997; R.ZUCCO, Per le Ariette e le canzonette di De Signoribus: qualche implicazione retorica e metrica, in Segni verso uno, cit.; A.CAVALLETTI, Lingua: forza inerme, in Segni verso uno, cit.; R.ZUCCO, «Istmi e chiuse» di Eugenio De Signoribus. Aspetti del lessico, in «Studi Novecenteschi», 57, 1999.
[4] Queste parole, come altre in seguito sempre in corsivo, da varie poesie.
[5]« (stupefazione)», in AE, p. 14.
[6] Passim da varie raccolte: i luoghi “chiusi” sono molto numerosi. Né poteva
essere diversamente.
[7] «(parata)», in AO, p. 48.
[8] «(gara celeste)», in IC, p. 35. Ed anche «vecchi muri)» (p. 37): «la scheggia nera», gli «occhietti di ragno» e gli «occhietti di biscia» sullo sfondo di «nulla vita» non possono non far pensare a un aereo che porta morte.
[9] Ho preso a prestito, tagliando la negazione, da: «oh, se i non affidati / i rari / i non ancora devastati / i non vinti non vincitori / trovassero la pietra miliare / il punto di raduno / magari / sopra la più dolorosa dolina / per deporvi la dottrina dei nomi / di corpi che infieriscono su corpi / impastati per gloria d’espiazione / o consumo…», in IC, p. 186.
[10] Scrive opportunamente P.LAGAZZI, rec. a IC in «La Gazzetta di Parma», 26 ottobre 1996: «[…] De Signoribus ci propone una mappa del nostro disorientamento – tra i flussi e i riflussi della nostra identità lacerata, tra le risacche della nostra storia allo sbando – di grande pregnanza non solo stilistica ma anche, a suo modo, etica.[…]». Il critico aveva già rintracciato alcuni di questi elementi in CP e AE. Cfr. la scheda su De Signoribus in Una strana polvere (Altre voci per i nostri anni), a cura di P.LAGAZZI e S.LECCHINI, Udine, Campanotto, 1994.
[11] Nel risvolto di copertina si può leggere, forse dovuta a G.RABONI, una nota sulla «dolorosa acutezza» di De Signoribus, che ha in sé anche «uno slancio, nonostante tutto, d’amore, una grandiosa, ostinata tenerezza verso quella realtà che tanto lo allarna e lo ferisce con i suoi enigmi cruenti e la cui bellezza tragicamente agonizzante si insinua tuttavia nella sua voce come un’oscura, inspiegabile, dolcissima minaccia di felicità.»
[12] Poesia civile, quella di E. De Signoribus. Così i suoi critici, tra cui E.Zinato con una precipua specificità analitica. Nel saggio, il più completo sul nostro autore, a p. 454 del numero citato alla nota 2) di «Microprovincia» scrive che proprio la «frattura fra un «prima» e un «dopo», così evidente in CP e implicita nelle altre raccolte, vuole essere emblema di istanze extratestuali non troppo celate: si tratta del grande cambiamento degli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento. Dall’impatto dei nuovi media audiovisivi alla caduta delle istanze di trasformazione sociale sopravvissute per qualche decennio alla colonizzazione capitalistica delle enclaves dell’inconscio sociale: i fantasmi del vissuto, le apparizioni, le immagini fotografiche e televisive, i lampi non sono che tragiche epifanie di questa colonizzazione. […]» Cfr. inoltre: G. AGAMBEN, in <Idra», 5, 1992; S. VERDINO, in «Nuova Corrente», XL, 1993; G.DE SANTI, saggio breve in I sentieri della notte, Milano, Crocetti, 1996. Ma questa, diciamo così, “vena” civile era stata accennata anche nella lettura delle prime poesie di De Signoribus sia da A.LUZI, in Marche, poeti oggi, Urbania, Bramante, 1979, sia da G.GARUFI e R.PAGNANELLI, in Poeti delle Marche, Forum/Quinta Generazione, Forlì, 1981.
[13] In questo senso una poesia a mio parere particolarmente suggestiva e significante a p. 117 di IC: (fortunali) « tanti sembrano in questa fine d’anno / i viventi dentro i fortunali… / si torturano il mento, guardano calare / i libri tra le lame e le pagine tagliate / saltare come sibille materializzate… // interrogare dunque, interrogarle… / ma sono esse solo riguardate / dai presi dalla forbice dei tempi // e le sibille stanno spiritate, ai varchi, / mutilate e mute».
[14] Sulla sofferenza nella poesia di E.De Signoribus cfr. E. CAPODAGLIO, loc. cit. e G.DE SANTI, op. cit.
[15] O anche con riso. In una recensione alla prima edizione di CP ha scritto R.PAGNANELLI, in «Microprovincia», 25, 1987; ora in Studi critici (a cura di D.MARCHESCHI), Milano, Mursia, 1991: «Il libro va letto, secondo me, come Kafka leggeva, ridendo fino alle lacrime, le sue cose, perché si fonda su una comicità originaria delle cose, un’ironia violenta quanto più è taciuta e virata verso il grottesco e il tragico. […]». Non mi risulta che questa osservazione, a mio parere ben fondata, sia stata ripresa da alcun critico.
[16] Per l’analisi stilistica e metrica cfr. gli autori indicati alla nota 2).
[17] In AO, p. 64.
[18] In IC, p. 186.
[19] Qualcuno che non ha «dimenticato la grazia della gratuità»: citazione libera da P.LAGAZZI, L’anima prigioniera, cit.
[20] In IC, passim.
[21] Il «varco», offerto dal nostro poeta con umiltà e non certo con enfasi, è sottolineato, per il fatto che gli «istmi» e le «chiuse» presuppongono un «al di là» da esse, nella mia rec. al libro eponimo pubblicata in «Liberazione», 19 dicembre 1996, con il titolo, redazionale, Istmi che finiscono in chiuse, che non risponde all’assunto delle mie righe.
[22] Proiezioni «sociologiche» e «quotidiane»: così G.GIUDICI, “postfazione” a case perdute, Ascoli Piceno, Marka, 1986.
[23] Cfr. S.MORANDO, La forza di una «luce inerme»: poesia di De Signoribus, in «Resine», 6-8, 1996, nella chiusa del suo intervento: «Memorandum per la vista è, del resto, l’ultima sezione del libro, in cui più teso si alza l’invito a non chiudere letteralmente gli occhi di fronte a una possibile (ma quanto lontana) «terra di nuvole»; la poesia si carica di grandi, anche se taciute, attese. Ad essa si affida il compito di rendere chiaro lo sguardo, sopportabili i sentimenti, probabili le speranze: […]».

Recensione di Maria Lenti:

Verso Occidente

di  Narda Fattori

VINCITORE del Premio Poesia Cluvium 2004 primo classificato ex aequo assieme a Colombe raggomitolate

FARA EDITORE

 

Fluisce caldo, senza interruzioni e di poesia in poesia, quasi a coagularsi in poemetti, il verso di Narda Fattori nel suo ultimo libro, Verso Occidente (Fara, 2004) in una rara, e nuova anche per lei, forma in cui non si dà distacco tra creatività e pensiero, tra immagine e parola che la significa. Un respiro arioso, assurto a trama linguistica e stilistica, dato alla caratteristica già presente nelle raccolte L’una e i falò del 1998, Terra di nessuno dell’anno successivo: la cantabilità, con le varianti in cui essa si dipana, cioè l’ironia leggera, l’apoditticità, l’antilogia, certe gradazioni toniche discendenti.

In questo tessuto si snoda il colloquio con l’entità vita: affettuoso per il tanto amore che le si porta, risentito per quanto essa non restituisce, per gli agguati che tende agli inseguimenti. Ma chissà che tutto non stia, invece, nel gioco che si apre con il venire al mondo, apertura guardata per tutto l’arco dell’esistenza nei gesti e nelle parole, negli insegnamenti e nel silenzio, nelle durezze e nelle lontananze, nel volere e desiderare e fare, in libertà, anche e nonostante i doveri. Dall’alba al tramonto, con ciò che lo spazio di tempo ed il suo luogo contengono di prosaico e di sublimine, di evidente e di nascosto, di percepito (o intuito) e di reale con i suoi sconfinamenti.

“Forse il dolore è l’insonnia degli dei / forse è solo il by-pass per traghettare / un altro giorno” scrive Narda Fattori. Il dubitativo per una domanda nata forse con la nascita stessa dell’essere umano, domanda che corre accanto al vivente e lo rincorre o lo anticipa, incardinata su un perché senza risposte e sciolta attraverso uno sguardo ostinatamente amoroso: è la domanda sul tempo che passa, l’infanzia che s’allontana con la sua innocenza e la sua inconsapevole, dunque irreale, felicità, le braccia del tempo e degli altri, calde, restate lì dove ci hanno abbracciato o svanite nell’aleatorietà del sogno sfibrato su un desiderio che resiste.

“Ti dicevo che era come un perdersi / dentro una ragnatela d’oro / dove abita l’agguato a tutto tondo / l’amore un desiderio un canto / dentro la carne ed è resa dei conti”. La poesia, allora, come è stato da sempre ed in ogni latitudine, diventa culla di una religione della vita a cui non si rinuncia pur nello scacco della rinuncia obbligata.
Nel tempo di oggi, in cui tutto appare sfaldato, sfibrato, in cui i rammendi appaiono rabberciamenti forniti alla e dalla memoria per i nostri giorni in ogni caso da vivere, quella domanda e la poesia che la contiene si snodano non più alla ricerca di un senso (il novecento ci ha lasciato anche in tale frangia a mani vuote e nemmeno su una soglia, dietro un paravento) ma nel fluire della constatazione appassionata e/o irridente, a volte ancora appesa a un filo di conferma e di acquisizione di essa. Una sorta di “sapere” non taciuto. Mai smentito.

In questa modalità può essersi già insinuata, o può aver fornito l’humus di partenza, la poetica (le poetiche) di autori di un sottofondo contestuale fatto proprio perché lì sono le radici: un terreno fertile, per esempio, come quello della Romagna, andato oltre se stesso per depositarsi nel novecento letterario italiano come poesia che connota la lingua (anche
quella del dialetto) e i versi da Pascoli in poi, fino ad oggi, fino a Guerra, a Baldassari, a Giuliana Rocchi – per restare alla terra dell’autrice di Verso Occidente – e connota anche un filone (i poeti veneti, altro esempio, o scrittrici dal cuore caldo nei versi e nella prosa, ma anche gli spagnoli della “terra e della vita” conosciuti dentro gli anni sessanta-settanta) che si misura con quelle radici segnandone il distacco.

Con questi materiali Narda Fattori connota il suo (il nostro) oggi. Un oggi, hanno rilevato i suoi critici, Andrea Brigliadori, tra gli altri, è sì un oggi privo di un personale goduto a piene mani nell’infanzia e nell’adolescenza, goduto perché era stato possibile, in quel tempo, sentire, prefigurarsi un seguito, chiamato banalmente futuro, e adoperarsi perché fosse: dunque, non solo l’illusione bella, amica della bella giovinezza, ma anche la speranza che il nostro fare confluisse in un costruire. Per sé e per altri. Con altri. Verso Occidente accoglie, di quel tempo, parole e gesti, simboli (lucciole e arcobaleni), le sere, gli altari, i tabernacoli, l’aratro nel campo, le mani di fatica, ecc. Di oggi, accoglie il silenzio, le insignificanze, le attese che non finiscono e tuttavia inutili, il sottofondo di nullità nella proposta di un antidoto alla crisi o di un lenimento del danno; accoglie un monologo-dialogo fitto con la madre che ha dato la vita e che, ora nel momento della sua malattia e della sua morte, la toglie togliendo il fiato a sé e a chi è lì a vedersela morire, incapace di farla vivere, impossibilitata a farla guarire.

Un poeta sa, Narda Fattori sa, che chiudendo la sua raccolta con il canto alla madre, Canto per Maria, andrà a toccare i gangli profondi di quel segmento in cui madre e figlia si ritrovano: la vita che si sottrae e quella che continua, il dolore in ogni caso, il coraggio e la forza in ogni caso, la lingua da trovare per dire tutto ciò, la coscienza di una supplica, un desiderio ancora: “Ma non andare là dove gli ulivi invecchiano in fretta / (…) resta dove il mirto ha bacche rosse / (…)”. Non si vada verso occidente, pur andando verso occidente. Si vada dove si può continuare ad essere.

Maria Lenti

Saggio di Maria Lenti:

IL DIALETTO URBINATE

DI ANTONIO FONTANONI

Pubblicata su: IL PARLAR FRANCO

3 ANNO III – 2003 – Rivista di cultura dialettale e critica letteraria

PIER GIORGIO PAZZINI STAMPATORE EDITORE

Non esiste una tradizione poetica in dialetto urbinate. Non tale, almeno, da aver segnato un terreno di semina cui attingere o a cui fare riferimento. Né vale ricercare il perché non si sia creata quella tradizione, oltre versi occasionali, passati di mano in mano o di bocca in bocca.

Tracce negli ultimi decenni. Nel 1962 un prezioso volumetto edito dall’Istituto d’arte, Dalla mia finestra di Renzo De Scrilli con prefazione di Carlo Bo, raccoglieva consensi e interrompeva il secolare silenzio. «Egli ha saputo» – scriveva Bo – «far tenere un fragile vaso, un’onda ben più alta [rispetto alla macchiettistica dialettale, n.d.r.] di poesia, diciamo pure un sentimento universale». Anni fa I fior di camp (1979) e I quattre vent (1980) – rivista, uscita per pochi numeri -, hanno tentato un radicamento scritto, ripreso in forme diverse nel 1998 con V’ l’arcont in dialett, un volume (l’ultimo del 2003 sempre a cura della Pro-Urbino) che antologizza il meglio dell’omonimo concorso annuale: iniziative volte a non far scomparire un dialetto «che la storia recente della città ha impoverito di articolazioni e spessori sociologici, ha svuotato di ‘memoria’ collettiva, ha quasi privato d’identità» (Giorgio Gerboni Bajardi). Nel 2002 Germana Duca Ruggeri (Ex ore) ha legato un suo contesto quotidiano alla città ideale dei Montefeltro e Duccio

 

Antonio Fontanoni è nato ad Urbino nel 1936. Vive a Sassocorvaro (PU). Diplomato all’Istituto d’arte di Urbino, ha insegnato educazione artistica nelle scuole medie. Scultore, pittore, incisore. Ha pubblicato (facendo tutto in proprio nel suo laboratorio, dalla stampa alla rilegatura) in copie regalate ad amici (ma numerosi): Ora se rid Ora se piagn, “Presentazione” di Walter Tommasoli (1984), Spiritual Animal, “Presentazione” di Gualtiero De Santi (1986), El ball da libertà, “Presentazione” di Maria Lenti (1987), L’arcolta del temp, “Presentazione” di Gastone Mosci (1989), Urle sensa voc, “Presentazione” di Umberto Piersanti (1990), La vera storia dia caverna magn’angosc, “Presentazione” di Sanzio Balducci (2003). Inoltre: Cement e sentiment (1986), la storia della costruzione, con la moglie Alessandra Geminiani, della loro bella casa dalle fondamenta con le proprie mani e braccia e, naturalmente, testa.

 

Alessandro Marchi ha musicato i suoi testi sulla Urbino della sua infanzia e giovinezza, Se vo’ veda le belle d’Urbin…: ironici, frizzanti, i versi restituiscono l’incanto di ieri, la malinconia dell’oggi, il passato recuperato alla memoria, un “non so che” che vive oltre il suo tempo.

Data, però, dal 1984 il lungo, affettuoso ma non mitico, a tratti aggressivo, raccontarsi e raccontare in versi, in dialetto, dell’urbinate Antonio Fontanoni.

Spinto da urgenza e necessità tutte di oggi, sub specie magistri o da testimone, tuttavia profonde ancorché talora con valore di apologo, mai bozzettistiche (se lo schizzo è presente, è il lampo che rimanda ad un pathos fuori di sé), Antonio Fontanoni unisce nelle sue liriche sentimento e apodittica, constatazione e premura, paura della fine di questa nostra terra e natura e amore per esse, senso della vita dell’uomo come costruzione e orrore per chi, invece, passa la vita a distruggere, lontananza dalla vita politicistica e senso della polis, dolori familiari (un’infanzia segnata dalla morte del padre per mano dei nazifascisti), felicità per il filo d’aria respirato ogni giorno, la pienezza di giorni vissuti nell’operare, nel fare e il tempo (quando?) di innocenza interiore e di umanità esteriore. (Temi presenti con diverso spessore in tutte le sue pubblicazioni, fino all’ultima, La vera storia dia caverna magn’angosc, un vero e proprio apologo, o una favola non a lieto fine, sugli uomini che scatenano guerre, sulla possibilità di evitarle, sulla loro inevitabilità qualora non esista una caverna mangia-angosce individuale).

Nel percorso, Antonio Fontanoni non sembra prediligere un registro in particolare: un po’ irregolare, come ama dirsi, nelle letture e nelle ascendenze (ma è meno “ingenuo” di quanto non ammetta), meglio, forse, focalizzato e centrato su un forte in sé, risulta essere talora gnomico talaltro sentenzioso, a volte secco a volte sopra le righe. Allora e di per sé il dialetto urbinate, che già potrebbe aderire poco alla poesia perché “ruvido e fluente ma libero da edulcorazioni” (Gualtiero De Santi) e che «si addice in modo particolare ai proverbi e alle sentenze, per il suo tono duro e secco che suona spesso come affermazione perentoria» (Umberto Piersanti), in Fontanoni rilascia a pieno queste sue caratteristiche.

In quel forte sé dimorano testa e cuore, volontà e desiderio. Se non parla la nicchia del suo cuore rimane che a ciascuno spetta un suo compito nella vita e nella comunità anche per evitare le angosce che scatenano le furie personali, ma resta nel fondo, tra le righe, lontana, la forza, l’energia lirica prevalendo l’astrattezza della determinazione e la durezza del dovere.

Ma, quando il poeta Fontanoni parte dalla nicchia del cuore (o da uno spiraglio pur piccolo di tale nicchia), i suoi versi rimandano una qualche vastità dall’universo, uno spicchio di apertura possibile verso la discussione dei malanni della società, una magari flebile voce dell’uomo e della donna in un oggi che li schiaccia ma in cui cercano uscite, la denuncia dei poteri che contano più che un dito puntato sugli individualismi micragnosi e implodenti e sulla eticità mancante nelle persone. Senza moralismi. Ed emergono il tempo, la natura, la storia e l’uomo che si cercano e si rincorrono reciprocamente non per vincersi ma per riconoscersi e accettarsi.

Recensione di Maria Lenti

DENTRO IL NIENTE ANCORA LA VITA

su:

“Isman” di Duilio Loi – Einaudi 2001 – Torino

pubblicata su PELAGOS anno VI n. 7/8 – 2001/2002 – Ed. QuattroVenti

 

Sentire profondamente l’esperienza della vita in tutte le sue cose: fisiche (aria, ciclo, vento), sentimentali (amicizia, amore, affetti, pathos e compassione, vicinanza e rifiuto), di vissuto giornaliero (persone, tra cui Isman, fuori di una storia che le connoti ma dentro la città quotidiana e già fatta propria nell’assunto del vissuto), il tempo e i luoghi (Milano, per esempio), la loro intrinseca vita e valenza. Si potrebbe aggiungere molto altro per Isman (Torino, Einaudi, 2001) di Franco Loi, ma si può tentare di concentrare in poche parole: vivere, essere nella vita, respirarne il fiato. È come se Loi partisse da un inespresso, sotterraneo, antico e nuovo, come la terra e il mondo e l’uomo, interrogativo: che cos’è la vita? E rispondesse in poesia, ma sottraendo l’essenza dell’esperienza, che la vita è il vivere in tutte le sue pene e felicità, meglio, che la vita è sentire pene e felicità e il fiato che le cose della vita mandano a noi perché le si colga e le si capisca. Questo non consola, certamente, ma rende consapevoli di un processo naturale immodificabile accettato in quanto tale e di un procedere in cui si immettono cambiamenti – anche dovuti – che non cambiano la sostanza della vita stessa pur variando esteriorità e costumi. È il senso, insomma, di una scoperta continua, di un assiduo tallonamento verso l’esperienza che, mentre la si vive, conferma il vivere stesso nella sua totalità, in cui hanno posto, allora e in poesia, la malinconia e il sorriso lieve, la tristezza e l’ironia, la gola seccata nell’evidenza e lo spiraglio di una speranzuccia «denter la vita che la sbianca el ner» (‘dentro la vita che fa bianco il nero’), l’afflato per il sodale, il riso per chi pensa che l’esteriorità sia il risvolto di una essenza esistenziale. L’altalenanza delle cose è l’altalenanza delle emozioni, la sensazione che si traduce in emozione, la scrittura che ne da la grana.

Isman risulta essere l’ultima uscita di un percorso poetico trentennale, che, nelle sue differenze scritturali, mantiene una costante, la liricità, più o meno concentrata in passaggi (per esempio nel XVIII capitolo di Teater, del 1978) o diffusa in tutta la raccolta già da Stròlegh, del 1975 (sulla quale Franco Fortini scriveva nella Introduzione in una comparazione con / cari del 1973 che Loi era qui «un lirico che tende la propria voce fra una saggezza che riassume e pondera e una disperazione che ingiuria e schernisce.»), fino a Verna (1997), attraverso L’aria e L’Angel Certamente, nell’avanzare della ricerca poetica e della scrittura di Loi (ma mi viene da dire, della vita di Loi), la “disperazione” ha lasciato dietro di sé quasi tutta l’ingiuria e parte dello scherno ed è diventata sentimento profondo, ma non altro, della vita stessa: non avviene così nell’uomo che vive? Non avviene così negli scrittori il cui versante di riferimento sono i nodi vitali più che le vicende? E come si determina, nella scrittura, l’affinarsi della sensibilità e il suo concentrarsi su un asse sottile che par te dalla nascita e arriva fino alla fine, vedendo sempre dei giorni lo sguincio dei conti che non tornano e di sbieco le luci e le ombre?

Osserva Paolo Lagazzi, titolando L’ultima terra della libertà la lunga re censione a Verna: «Non è solo, come qualcuno ha osservato, dopo L’Angel che la lingua di Loi tende a un “assottigliamento” . Da sempre (basti pensare alla splendida raccolta L’aria) il suo pa radossale espressionismo appare a tratti doppiato da una pronuncia arcanamen te delicata e leggera. Questa leggerezza non è certo il frutto di una volontà novecentesca di purezza: volendo trovare un termine di confronto nel Novecento, è solo, forse, a Caproni che potremmo pensare, benché in un gioco diversissi mo di registri, Loi sa dire nel modo più vero l’inconsistenza straziante della vita: la sua natura d’aria, il suo essere un puro ricamo d’illusioni su un’inte laiatura di fumo o di niente» (Dentro il pensiero del mondo, I Quaderni del Battello Ebbro, Porto Sant’Elpidio, 2000). (Così penetrante e sottile la let tura della relazione vita-poesia, o poe sia-vita, di Loi da parte di Lagazzi da essere, a mio parere, un punto fonda mentale della bibliografìa sul poeta.) In quella relazione entrano gli anelli e le maglie dei giorni, degli elementi, delle condizioni sine qua non ogni acccttazione esistenziale è ressoché impossibile, inagibile. Come se unica ricchezza pos sa essere il sentire, il percepire i noc cioli, gli snodi, la luce o l’ombra. Come accade, oltre che in Caproni, a mio parere in Marin nella lingua di Grado. Ma Biagio Marin ha la gioia di essere «nel silenzio più teso» (titolo della rac colta del 1980, edita da Rizzoli). Scrive a proposito Pasolini nella quarta di copertina: «Marin non sa distinguere la gioia esterna dalla gioia interna, non ha mai stabilito una linea di demarcazione fra sé e la res extensa: la luce del sole e la luce dei suoi sensi sono sempre state la stessa luce»). Come accadde a Tolmino Baldassari, nella lingua della sua Cervia, per vie del tutto altre, quel la cioè che si quietano nella memoria e da qui partono per entrare, dolce il ri cordo e dolce la memoria, nei versi che richiamano in vita ombre e luna e il si lenzio che ora li accompagna o li attor nia; peraltro capaci, ombre e luna di tornare in vita proprio perché il loro si lenzio ha pro-vocato il silenzio dentro il poeta. La poesia di Marin risiede nel filo teso tra sé e il fuori (che è l’altro sé, non scisso); quella di Baldassari vive nel quadro memoriale in cui si dispon gono le persone perdute, i loro affetti.

Franco Loi coglie l’intima essenza degli elementi di cui si diceva, carican dola di una sua pena o della pena del vivere. Così la.sua poesia contiene i tratti della vita, tra piacere e dispiacere, come li si vive, come appaiono, nella densità, sfinita nel sentire, di cui sono fatti: «Cume me pias el mund! L’aria, el so fia! j àrbur, l’èrba, el su, qui ca, i bèj strad, / la luna che se sfalsa, l’èr ga tra i ca, / me pias el sals del mar, i matt cinad, / i càlis tra i amìs, i abièss nel vent, / i tucc i ròbb de Diu, anca i munad» (‘come mi piace il mondo! L’aria, il suo fiato! / gli alberi, l’erba, il sole, quelle case, le belle strade, / la luna che muta sempre, l’edera tra le case, / mi piace il salso del mare, le matte stupidate, / i calici tra gli amici, gli abeti nel vento, / e tutte le cose di Dio, anche le piccolezze’).

Sarà proprio questo piacere del vivere, in cui tutte le cose di Dio (un Dio Creatore, tuttavia, piuttosto che un Dio Ordinatore) si scontrano con le brutture e le cose ingiuste e quella più ingiusta di tutte che è la morte, dell’uomo e delle cose dell’uomo o delle cose della natura distrutte dall’uomo. E nasceranno le prime raccolte, dalla forte ilarità e invettiva. L’aria, L’Angel, Verna, coaguleranno poi in versi leggerissimi lo spessore del vivere Isman n prende, e con nuovo vigore e sotti gliezza, tale spessore colto dietro il niente delle nuvole perche «dre del ment amo passa la vita, / la lus che se la furma a] vus del vent » (‘dietro il niente ancora passa la vita, / la luce che si forma alle voci del vento’)

Maria Lenti

Saggio di Maria Lenti:

L’Odysseus

di Dante Marianacci

in: Oggi e Domani

anno XXVII – n. 11/12 – novembre/Dicembre 1999 (n. 294 delle serie)

 

(…) nella coscienza di un perduto non trovato, di un trovato non risolto secondo il desiderio, nello “schianto” e ancora nel ricominciare, si distendono il viaggio ed il ritorno continuo, incessante e -non paradossalmente – sempre uguale a se stesso. Lo sottolinea Giorgio Patrizi, scrivendo de I ritorni di Odysseus: “Il ritorno è solo il pretesto per ripartire l’esistenza è solo l’occasione per continuare a sperare nel ritorno, la poesia è la voce che consente di far vivere l’immaginazione del viaggio”

La poesia di Dante Marianacci si distende negli spazi tra viaggio reale e sua immaginazione, tra la resa e i suoi gradini tra la necessità di un sapere di sé e il desiderio di lasciare indietro quel sé, anche lontano, mentre l’impossibilità “che tutto questo sia” ridefinisce altri margini ed altre consistenze.

Come dire, insomma, che se un esterno non dà consolazioni, il proprio sé ammutolisce per l’insistenza del suo proporsi e riproporsi, anche nella ricerca di radici, dei padri, del proprio padre cui si resta abbarbicati anche lontani nel tempo e nello spazio. Questo padre è, in definitiva, il passato, il perento, il volutamente lasciato, il presente non trovato, tutte ciò che resta dietro di noi, quel che non troveremo mai, il contentarsi del giorno e la storia che lo nega: un bagaglio noto, ossia la “sorte” del viaggiatore vero, per dirla con Baudelaire che Marianacci chiama “mon semblande mon frère” (p. 38), il sogno. E dunque – scrive Giuseppe Conte nella clausola della “prefazione” I ritorni di Odysseus -: “(…) occorre essere sempre pronti a sfidare le onde, a rialzare le vele del sogno e della conoscenza, a ricominciare il viaggio”.

II viaggio sarà un ritorno, se non il ritorno, senza sorprese né stupori. In questo la poesia di Dante Marianaci accoglie la lezione dei suoi maestri ed un arco di riflessione che i. Novecento ha percorso e ripercorso lasciando agli interrogativi stessi la loro proposta e la loro impossibile distensione in risposte definitive. (…)

Da: Fucina Mastroianni

In: “Archivio”, anno XIV, 7, settembre 2002

Tutti insieme a Urbino, finalmente restaurati, i bozzetti monumentali in legno, scolpiti da Umberto Mastroianni dal 1970 al 1980. Sono 15, e tra questi i bozzetti dei monumenti Ai caduti di tutte le guerre, Alla Pace della città di Cassino, A ricordo dell’eccidio di Vallerotonda, Alla lotta partigiana della città di Urbino. E il Grande volo, arioso nel titolo e come gli altri un intreccio, lineare e mirato, un’esplosione di energia e speranza, di forza e di volontà nel pathos che le determinano e le fanno agire. Sono gli elementi nodali e la costante dell’arte di Mastroianni: le sue sculture, infatti, si sono sempre proiettate – da un punto centrale saldo come una radice nascosta e vitale – verso l’esterno, nello spazio mai circoscritto o limitato attorno alle linee, ai bracci, liberi verso spazi direi infiniti. Quel nucleo interno – lì dove si dipartono a raggiera le linee, dove i bulloni fermano e fanno partire le linee (dei lunghi bracci-parallelepipedi, dei cilindri, dei coni rovesciati e con la base verso lo spazio non contenuto, una base vuota che a sua volta si riempie di aria) -, tanto interno che non si vede, quasi a rendere ragione di una centralità di “qualche cosa” (l’uomo e la sua materia, certamente, la storia, che si incardina poi nella memoria), quel nucleo spaziale interno tende sempre a liberarsi, a dare corpo alle emozioni, a rendersi autonomo anche dalla pesantezza della materia.

M. Lenti

Su: Addo’ ‘e lume e ‘i silenzie, Salerno. Ripostes, 2004

di : Mario Mastrangelo

Interrogarsi o parlare della vita, scrivere del segmento tra la certezza di un principio e la certezza della fine, dopo gli orrori del novecento e gli attuali, dopo la scoperta in letteratura delle sotterraneità e della corporalità (con tutte le emozioni e le varianti), del quotidiano, dei sipari alzati, della funzione relazionale, eccetera, non è facile, anzi direi che può essere rischioso. Tanto più nella poesia in dialetto, un cui filone (per restare ai secoli appena passati) si è proprio definito e determinato sui canali esistenziali sopra detti, con accentuazioni anche di metafisicità (due poeti, Salvatore Di Giacomo e Biagio Marin, di aree e formazione diverse) -.

Eppure resiste in alcuni poeti l’urgenza di porsi direttamente, con i loro versi, dentro quei canali. E’ il caso di Mario Mastrangelo con il suo ultimo libro Addo’ ‘i lume e ‘i silenzie – Dove i lumi e i silenzi – (Ripostes, 2004), il cui titolo restituisce non una domanda ma una constatazione e si offre dentro quei canali nei quali i lumi (le illusioni) appaiono per lasciare subito il posto alla realtà dei silenzi (il dolore), almeno nella corrente principale e più diffusa della raccolta.

In una levità che può apparire talora di vena fin troppo facile (per quanto bella, come può essere un testo alto per una musica da canzone. Non sono d’altronde della sua area linguistica alcune canzoni tra le più riuscite sul piano poetico-musicale?), il poeta salernitano continua la sua poetica riflessione adagiando i versi nella essenza – o quella che al poeta appare l’essenza contenuta in quel segmento – dell’assenza di “un perché”, mentre si fa avanti la costanza dell’accettazione del “così è”.

La rastremazione della lingua giunge ed immette nella rarefazione delle occasioni di vita: sono così sottili e impalpabili che alla fine si avverte fino il filo non su cui si cammina ma, appunto, cui sono appese rare le felicità e le più fitte evanescenze.

Se, avere “scoperto” tutto ciò, sia sapienza o buon senso di fronte alla realtà dell’esistenza, lo potrà stabilire il lettore tratto a snidarsi come essere vivente e a snodare come grani di rosario il cielinferno della vita: <<Felicità, / pe’ t’afferrà, / quanno ‘e veni / me faje ‘a surpresa, / sti bbracce, tutt’ ‘e ddoje, / già tengo aperte e stese. // Pe’ tte ca passe / e fuje veloce, / me songo fatto / a forma ‘e croce.>>

Maria Lenti

QUESTA VICENDA LUNGA COME LA VITA …
(sulla Poesia di Umberto Piersanti)

Di una poesia meditativa, su una soglia in cui il tempo passato ha un agire lungo nella memoria ed il tempo futuro si fa persino impensabile nella sua rarefazione, sono impastati i luoghi persi di Umberto Piersanti: quei luoghi della memoria e nella memoria uniti insieme ne I luoghi persi[1], ultimo suo volume di liriche. Ma di una memoria intrecciata. Nel mentre, infatti, si distende per risincopare un vissuto necessitato ad esserci ancora e costitutivo della propria vicenda ed ansia esistenziale, la memoria ricattura altre immagini, risostanziandosi così di un percorso continuamente rivissuto nei luoghi che pure sono persi.

Ripensare il non più (nelle fughe sull’Appennino, nelle città d’arte, ecc.) riaccende il più della vicenda umana di Umberto Piersanti. E, contrariamente a quel che in genere si pensa e si dice – o si vive – la delusione non ha luogo in questo ritorno e la nostalgia compone il suo incavo caldo non algido. Nel senso che le due lenti, la memoria e la ricerca dopo la memoria, sembrano coincidere nel punto focale, lì proprio al centro della sovrapposizione dove si forma la nuova immagine. <<Questa vicenda lunga come la vita / forse cambia chi viene e non conosco / io nell’attesa sono come sempre / in giro sui miei colli nella cerchia / e poi vado lontano e qui ritorno>>: in questi, come in altri versi, si concentra il punto focale di cui ho detto.

Sul quale, con differente angolazione già si è soffermato Carlo Bo[2], critico di Piersanti dalla nascita della sua poesia, in un incisivo per pur breve profilo: «Questo ritorno alle origini, consacrato soprattutto alla memoria della nonna, avviene nella maniera più semplice e in un contesto che non si fa mai favola ma è presenza, passione e carica vitale. Da un certo punto di vista la memoria resuscitata si identifica nel presente e nell’immediato, sicché il poeta salda in un’unica vocazione l’emblema del suo passato familiare con la somma delle sue esperienze, a cominciare da quella più costante e ambiziosa: la poesia.»

In parte asciugata ma certo non prosciugata rispetto alle raccolte precedenti, questa poesia, assottigliato e affinato il sentire, procede negli interstizi memoriali e psichici: evita, dunque, segni interpuntivi, nessi logico-sintattici, soste in sovrabbondanze lessicali in modo tale da dare ad ogni verso un senso ed ad ogni strofa uno spazio compiuto. In parte, mi sembra, trovandosi sulla linea del primo libro di poesie[3] nel quale il canto della gioventù era assoluto. Solo nelle pubblicazioni che verranno dopo il non più diviene memoria.

I due elementi in LP si sovrappongono. Variata anche nella ricchezza dialettale (Frammenti di poema 1982-1990) e concentrata soprattutto nella forma del poemetto – una forma 0articolarmente amata perché permette all’autore di cercare i luoghi della memoria, percorrerli, riviverli, di proiettarli davanti a sé pur sapendo il non ritorno – la poesia di Umberto Piersanti si crea il suo spazio nella poesia contemporanea (quella nata attorno agli anni settanta) nella dimensione del mito.

Il mito come parola, secondo l’etimo per certi aspetti. Il mito come ragione di un vivere che di quel mito vorrebbe fare essenza e non straniamento, chicco che può maturare e non gradino di allontanamento e di regressione.[4] Tra la gioventù e le sue perdite irrimediabili e la maturità è inserita l’anima: <<io non avevo mai capito / da dove l’anima viene tra gli spini / ma l’anima è piccola, fatta d’aria, / passa tra gli spini e non si graffia>>. Con i suoi depositi morenici, la feconda introiezione di un’esperienza accumulata in sensazione, la vita ha un altro sapore.

Piersanti non calca troppo sulle possibilità di questo sapore e di quel chicco a farsi grano, per un investimeto meno presente in LP e, magari, invece, diffuso in Nascere nel ’40 e in Passaggio di sequenza. In maniera certo differente dai suoi conterranei (di e in quella terra mitica) – un Giuseppe Conte, per esempio, o un Milo De Angelis – i quali nel mito pongono il loro timo.

Direi, semmai, che il poeta urinate, nello sperimentare il limpido tempo della memoria e del suo contenuto, tenti di fissarne il caldo possibile: che è lì, che può dilatarsi, che soprattutto è suo (e forse di una generazione), con i fiori nominati, gli alberi riconosciuti, i luoghi precisi, le persone “reali” e la donna “adattata” dal poeta alla sua propria sensibilità e voglia dopo essere stata il soggetto proiettato del suo desiderio, Nausicaa sempre, Sheherazade qualche volta.[5]

In questo mi sembra di poter rintracciare un ritorno ad una classicità intravista non di rado nella poesia di Piersanti ma anche in molta della poesia di oggi: un bisogno di fissare i resti contro la dissoluzione e fissarli con la soggettiva visione delle cose e del mondo, visione nutritiva della propria esistenza. Fissati anche per sé, per quello sguardo riflesso su un bilancio esistenziale, e fissati, inoltre, come messaggio per chi vuole arrestare gli scorrimenti veloci del tempo, le volute dimenticanze di un mondo attuale ingeneroso e banale nella sua facilità al cambiamento di superficie e agli azzeramenti di profondità.

Maria Lenti (luglio 1994)


[1] PIERSANTI U., I luoghi persi, Torino, Einaudi, 1994. Da ora: LP.
[2] BO C., In questo libro, nella quarta di copertina.
[3] PIERSANTI U., La breve stagione, “Introduzione” di Gualtiero De Santi, incisioni di Walter Piacesi, Urbino, Ad Libitum, 1967.
[4] In una conversazione con chi scrive, resa per <<Verso>> (7/8, dicembre 1993) Piersanti chiarisce il senso di quest’ultima sua raccolta, anche in merito al concetto da me espresso or ora.
[5] Della poesia d’amore del nostro autore molto si è scritto. Qualche nota diversa viene da Gilberto Finzi, da Edera Ciambellotti, dalla sottoscritta. Per le collocazioni bibliografiche, cfr.: LENTI M., Umberto Piersanti: la trama della memoria, in <<Pelagos>>, anno II, luglio 1993, n. 2.

Su: INVENTARIO di Rita Vitali Rosati

In : “Il Progresso”, anno 9, 9, 9 maggio 2002

Un Viaggio con soste e pensieri e persone sorprese in un gesto, istantanee, l’occhio umido o caldo di luce, il cielo oscuro o fermo su nuvole bianche, i fiori al vento, donne e uomini, poeti e artisti, incontri casuali e casualità, luoghi, particolari di monumenti, spazi abitati come fotogrammi di film (suppongo) amati: non è che uno stralcio dall’ “Inventario” di fotografie di Rita Vitali Rosati.

Come si è posta l’artista dietro la macchina fotografica? Con la mente e il cuore sgombri di pregiudizi e di intenti emotivi e concettuali. Parlano, queste foto e tutti i personaggi e i soggetti, dicono quella vivenza.

Maria Lenti

Saggio di Maria Lenti:

Le parole conducono da qualche parte

di Gregorio Scalise

in: Quaderni del Battello Ebbro

9.10.11 – aprile 1992

(…)  Nel confermare certi stilemi già molto suoi, Gregorio Scalise diluisce in questo volume un poco la sua assertività, l’asseveratività del catalogatore fermo su indicenze altre.  «La resistenza dell’aria» mette in conto una lucida possibilità nel contrasto, una prospettiva magari un poco sbieca e di certo non consolatoria: «questa è la materia, / giorni densi di empietà e miseria, / la tensione è ciò che è concreto / o la gioia di quel cibo complicato: » (p. 91). Significativamente i due punti aprono un’altra strofa sospesa su altri due punti.  E, ancora significativamente, la poesia inizia con un richiamo interpuntivo simile a un appoggio, poi negato, leopardiano: «Se sono turbato è per ordine / della natura, le ginestre / sanno che le rappresento / come le radici di quel suolo, / l’ordine conferma la presenza / dei sudditi, perché le acacie / sono alberi senza speranza: »

Forse è un dono sul piano fisico, ma un dolore su quello morale etico ed esistenziale dell’uomo il fatto che « l’aria giunge dove non c’è resistenza» (p. 73).

Così l’ambiguo se non l’ibrido, l’intravedere, il muoversi dell’uomo, la costanza-incostanza si fondano e si fiondano proprio nella duplicità con cui appaiono, o si formano i fenomeni: se un’origine materiale ha ancora una sua specificità positiva è però in questa origine materiale il laccio stretto. O forse, più che l’origine, la consistenza.

Non mi sembra che Gregorio Scalise voglia rintracciare una immaterialità, contro la materialità, in senso religioso, la sua poesia essendo quasi sempre implicata nelle maglie della vita con le sue originalità, anche di sogno fondativo che, magari, potrebbe anche recuperare l’orfico.  A meno e non si voglia intendere la parola come desiderio di (con valore soggettivo e oggettivo) rintracciato però in qualche cosa già esistente: «per una nuova scommessa / la speranza è attraversata dal sogno / il cerchio non è estraneo / quando si restringe fra le linee: / il volo dei passeri trova la violenza / sfogliando un vecchio album di famiglia: » (p. 72). Ed il dolore esiste.

Appare indubitabile che l’attraversamento del sogno, mai percorso in proprio, confluisce anche oggetti per dir così astratti, con referenti esterni al testo. Ma il più delle volte «gli oggetti sono divisi / fra due ordini di false ragioni: / questo è il luogo dove lo scienziato sillaba / ché i suoi pensieri sono sequestrati:» (p. 63). Da questa poesia, intitolata Dialogo con Prufrock, il loro sequestro si rovescia con il rumore di una quasi impercettibile ironia, su «quello scordato strumento» ormai depurato dell’asciutta accoratezza montaliana.  La poesia di Gregorio Scalise si connota, pertanto, anche per la presenza di un asciutto nitore derivato dalla consapevolezza di un deflagramento di qualsiasi appiglio, esterno ed interiore, sociale o sentimentale.  Qualcosa è irrimediabilmente finito ed è possibile solo nominare i resti, ancora in versi brachilogici, fatti di oggetti e di spezzature, indifferenze [«Ogni cos vive sotto cieli indifferenti» (p. 30)] di materia-maceria. (…)

MONTI AZZURRI

Viaggio attraverso le stagioni del Parco Nazionale dei Monti Sibillini:

 

PRIMAVERA

Valle Santa

l’immobilità di un evento sconosciuto…

E via elencando, sull’inventiva tutta personale o sull’eco di passi sui sassi, un’eco adacquata nella memoria di una giornata passata lassù.

( M. Lenti)

 

I Monti Azzurri di Stefano Taffoni

Nella fotografia di paesaggio si può correre il rischio, da un lato, di restituire uno sguardo illustrativo a tutto campo, dall’altro, un confinamento dei particolari ingabbiati in se stessi. Il paesaggio potrebbe, dunque, restare immagine fissa e non ripartecipare il «piacere del testo»: nucleo che Roland Barthes riferiva alla letteratura e alla poesia, ma che – negli ultimi decenni – è stato esteso, nella più esperita centralità del corpo, ad altre arti. Invece l’emozione, tratto di lettura… I Monti Azzurri di Stefano Taffoni sono la pietra che, in bilico nel pendio, sembra in movimento; la montagna contemplata dalla Grotta dei Frati; un albero che sta scrollando da un ramo la neve al sole; S. Maria in Pantano in attesa di una scoperta; il Fontanile che sposta lo sguardo fuori quadro, verso le mucche; la cascata del Fosso il Rio che se ne scende con una indifferenza tutta sua; la gola del fiume Piastrone, il ricordo lontano di un Orecchio di Dionisio; il lago di Pilato.

 

 

PRIMAVERA

Falce di luce la chiamò il poeta

questa primavera, forse crudele equinozio;

fa ch’io viva per sempre

nello scatto, ch’io viva.

(L. Santoni)

 


 

ESTATE

Gola del fiume Fiastrone

 

Ma si può incrinare, se non rompere, qualche credenza con Stéphane Mallarmé e la poesia contemporanea: «[…] L’inverno, stagione dell’arte serena, il lucido inverno […]»

(M. Lenti)

 

C’è una stagione più bella dell’altra sui Monti Azzurri? Sicura ma non sfrontata, sconfinata ma contornata d’orizzonte, lucente ma pacata, fermata su un riflesso di sole (sulle tegole dei tetti di Castelluccio di Norcia), in sentieri di amore e di studio, di fantasia e di realtà, di visionarietà e di concretezze, in colori e sfumature, in tagli di serenità, in inquietudini e solitudini abitate dal proprio sentire, le stagioni dei Sibillini di Stefano Taffoni ridanno l’esserci senza distinzioni.

La distinzione, si sa, arriva da chi nelle stagioni vive. Cioè viene da noi con il carico giornaliero e ancestrale e culturale e dei non ammessi e appiattenti luoghi comuni, avendo peraltro assimilato stati d’animo e stagioni, felicità e stagioni, infelicità e stagioni, ciclo della vita e stagioni. («Già sento primavera arrivare…» scrive Saffo: l’amore era alle porte. «Garzoncello scherzoso / cotesta età fiorita»: adolescenza e maggio odoroso di Leopardi, dalle cui Ricordanze Taffoni deriva il titolo Monti azzurri. «Il vero tesoro dell’uomo / è la giovinezza. / II resto dei nostri anni / è una serie d’inverni.» dice Rostand.

 

 

ESTATE

Fa’ ch’io viva nell’amore

dell’estate, di sangue e d’azzurro;

è stagione abbagliante questa

o forse radiosa di spine.

(L. Santoni)

 


 

AUTUNNO

 

che l’autunno porti parola, sonno, pace

Lucilio Santoni, nelle quattro, raffinate, poesie, limpide metricamente come limpido è l’occhio del fotografo, percorre – rispetto all’idea che si ha, che lui ha, delle stagioni – una strada a metà tra tradizione e rinnovamento. Parte dal noto e lo riconosce, ma sposta il desiderio dell’attesa (o di quel che ci i potrebbe attendere, secondo la vulgata) di quel noto: che primavera dia a chi vive sempre lo scatto; che l’estate sia abbagliante «o forse radiosa di spine»; che l’autunno porti parola, sonno, pace; che l’inverno sia silenzio e nutrimento, o sappia indicare «la via dell’oblio».

E’ germinato in Lucilie Santoni (o verrà tutto ciò) óa\\’Infernaccio o dalla Foce di Montemonaco, dal Fosso il Rio, dalla sorgente dell’Ambra, dai Pantani, dal piano dolce e

inclinato dopo la nevicata, dal Monte Porche, dal Pizzo del Diavolo, dalla Valle Santa, ecc.?

Chissà. Che la natura dia finalmente ascolto ai desideri nostri?

(M. Lenti)

 

 

AUTUNNO

Forse una nostalgia senza centro

è questo autunno infermo al mondo;

fa’ che mi giunga il celeste dono

della parola, del sonno, della pace.

(L. Santoni)

 


 

INVERNO

Castelluccio di Norcia

 

insinuano ed evocano storia e leggende, presenze e paure

Certo è che i nomi stessi, pur nella tranquillità del loro abitare il quadro della fotografia e dei monti Sibillini, insinuano ed evocano storia e leggende, presenze e paure, affronti e pacificazioni, baluginii ed esiti, lavoro e solitarietà, lavorìo della natura e sguardo esterno ma non estraneo. E beni culturali, presenza – come rileva Gino Troli – umana e sovrumana «in cui il creatore sia una stessa mano che della natura ha fatto un bene artistico e dell’arte un frutto della natura».
Chissà per il resto. Stanno nella loro quiete, i luoghi, anche se richiesti di un responso che la Sibilla tace lasciandoci, meno male, imaginerie e reverie sia nelle fotografie sia nelle poesie, in una sintonia difficile da trovare tra testi e testi in libri simili o similari: sintonia nella singolarità testuale, evitata qualsiasi contaminazione o prevaricazione.

(M. Lenti)

 

 

INVERNO

Oh nulla profondissimo e bianco
fa’ che non imputridisca il sentiero;
oh inverno di silenzio e nutrimento
forse vorrai indicarmi la via dell’oblio.

(L. Santoni)

 


 

crediti

MENSILE DI INFORMAZIONE E DI CULTURA

ANNO XIX – N. 5 Novembre-Dicembre 2003

Circolo culturale “Riviera della Palme” di S. Benedetto del Tronto

Album Fotografico di

Stefano Taffoni

Viaggio attraverso le stagioni del Parco Nazionale dei Monti Sibillini

Poesie sulle Stagioni di

Lucilio Santoni

Prefazione di Gino Troli

Recensione di Maria Lenti

Da: Le epifanie plastiche di Vincenzo Tiboni

In “Archivio”, anno XIV, 7, settembre 2002

In figura: Targello – 2000 – bronzo – 75 x 33 x 20 cm

 

………

Le sculture si “alzano” o si “distendono”, si proiettano in verticalità e in orizzontalità e anche con i titoli (Il soldato del cielo, Telegono, Targello, ecc.) si confermano nel loro illimite, mentre stanno in una continuità anche tra passato, presente e futuro. Dal tempo si astrae la sostanza, l’essenza umana che può costituire continuità, la continuità che ha rigettato, poiché lo ha conosciuto, l’orrore della storia e della cronaca: pensato a lato, esistente ma sotterraneo.

… “odio e rabbia” costituiscono il nucleo da cui nascono, ed escono, odio e rabbia: cioè dal desiderio e dal bisogno, dall’attesa (testimoniata dal fare artistico, dalla poiesis in definitiva) del .superamento del limite, del superamento di un’ambiguità sentimentale e razionale che spegne e vanifica le valenze umane, quelle forti, dei valori e delle progettualità.

………

Maria Lenti

SU LUCE DA HAKEPA DI GIUSI VERBARO

In: ARIA – Storia di un simbolo tra vita e letteratura

– a cura di Guido Garufi e Antonio Santori – 2001

 

ARIA E LUCE SUL PRECARIO DOMANI

 

Riflessione dal monte Hakepa

In – Luce da Hakepa – Book Editore – Bologna – 2001

… Lontano dai clamori

dal rumore convulso della vita del rosso dei fuochi

e dei suoi roghi. È il monte Hakepa il punto

della luce. Il segno del riscatto e del ritorno

da cui l’annuncio al pellegrino

che l’antico disegno qui non muta.


 

dal saggio di M. Lenti:

………

In tali anfratti, in queste pieghe ed anonimie Giusi Verbaro sente anche i “ritmi misteriosi” e i “cicli di rinascite / più complessi ed oscuri di ogni umana / misura”. Se qui possa entrare la personificazione di un dio o di Dio, il testo non dice ed io non saprei dire, ma può ben entrare il senso di una religione dell’uomo e il senso nascosto, sotterraneo, del viaggio che tutti ci tocca in sorte e di un viaggio cui ciascuno è intimamente, umanamente legato: Ulisse nostro malgrado o per scelta o per il sentimento di un andare camminando e facendo e non interrompendo, nelle profondità non sempre riconosciute e “obbedite”, cicli tanto vitali quanto indeterminabili.

Una parte non di poco conto né di scarsa valenza l’hanno i sogni, da cui si possono irradiare fili di luce, la speranza, la coscienza del limite. Perché, se è vero che tutto abbiamo perduto e molto per nostra responsabilità, è vero altresì che il senso di onnipotenza, individuale e collettiva, ha creato disastri. Il senso del limite – introiettato e arbitro nella coscienza -, invece, imporrebbe il senso di un fare per progetti, per tappe, gradino per gradino, ora per ora, senza stravolgere né il mistero che, in ogni caso nel viaggio, ci avvolge e ci definisce, né le nostre esistenze nella storia che, sprecata e dilapidata, l’onnipotenza ci ha sottratto, rubato e nemmeno in modo proditorio essendo noi consenzienti se non complici, restituendocela come rovina e impossibilità di ricomposizione, spesso negazione di ricominciamento. (Che altro è la parola storia variamente diffusa in Luce da Hakepa?).

… … …

Prefazione di Maria Lenti a:

 “DEBUTTO  A  SIPARIO  CHIUSO”

di Annateresa Vichi Albanesi

POESIE  –  EDIZIONI DEL LEONE – giugno 2003

 

Un filo lega le poesie e tutte le raccolte di Annateresa Vichi Albanesi: ed è il filo tra sé e la vita nelle sue mille sfaccettature su cui si rifrangono o si rispecchiano desiderio e illusione, riscontro e avvio, consapevolezza e meditata attesa di un’apertura. Nulla muta e tutto muta, in fondo, per il fatto che la realtà e l’esistenza incontrano sentieri diversi e differenti strade in cui, tuttavia, restano uguali e sempre tali la ricerca, la constatazione, la nuova attesa.

Nelle liriche di Debutto a sipario chiuso i due termini sono già nel titolo: lì dove un inizio è dichiarato si situa immediatamente l’impossibilità che esso si svolga. Il segmento, tuttavia, idealmente e poeticamente teso tra i due punti, si riempie di stati d’animo, di persone, di giorni, di ore, di luci e di ombre, di sensazioni e di emozioni, di pensieri, che appaiono e scompaiono e che – nel loro farsi e disfarsi – danno ragione, indiretta, di quel che ostinatamente si continua a vivere: ossia dell’essenza stessa della vita.

Certo ci sono (ed in altri momenti e poesie Vichi Albanesi lo ha scritto) situazioni esistenziali di dolore o di gioia – derivate dai passi mossi o non mossi, dalla storia e dai soprusi di essa (i carnefici, per esempio, della seconda guerra mondiale e delle guerre sparse nel mondo), della quotidianità sfuggita al controllo razionale e al lavoro dei giorni che danno (o non danno) i loro frutti, della morte che colpisce i viventi, ecc. Ma la linea poetica più inseguita (o la linea poetica che più insegue Annateresa Vichi Albanesi: mi riferisco a E sono stanca di inventarmi il sole e Ombre di soli a sera) si addentra nelle profondità e nei perché (non risolti, si sa, se non pensando ad una luce ultraterrena) della vita.

Con un ‘angolazione particolare. Profondità e perché fanno parte dello scorrere della vita e del suo flusso: impossibile darne ragione e conto. Esistono e tanto basta. Anche nelle contraddizioni loro proprie, nelle menzogne e negli infingimenti, nelle finzioni:

 

«La mia pagina bianca

somiglia a un inciso

tra i momenti di trepidazione

e parole dette a strappic:

l’ortica è riluttante

a concedere fiori,

se il sole

non la incarna.

E mi sommerge

l’agonia di luci spente

nell’ingenuo credere

che non tramonti

il tempo,

mentendo alla vita.»

 

Contrasti, anzi, e non contraddizioni, per i versi che non “dicono ” ma “fluiscono “, escono cioè come sono, arrivano nella loro pienezza anche musicale, quasi che naturaliter siano scesi nella pagina senza la mediazione di una pausa: il che certamente non è, se è vero – come è vero – che i versi hanno sapienza ritmica. Allora si può scrivere che il “sogno di rara innocenza” (individuato dalla giuria del premio di Civitanova Marche “Donna è Scrittura” nel 1991) è la cifra di una poetessa che, avendo vissuto e conoscendo oscurità e impossibilità, le nomina limpidamente iniziando dal loro contrario. Secondo una lezione ben radicata nella poesia italiana ed europea del Novecento.

I RESTI DEL SILENZIO

(Nota di M. Lenti su: Nel silenzio campale – di Paolo Volponi)

pubblicato in : la collina – Rivista semestrale di letteratura

Nel silenzio campale (pag. 25)

eppure talvolta accade che tra

questi muti volti dell’obbedienza

capiti uno che insorga e stravolga ogni senso della sua stessa esistenza

e di quella generale, civile, che trapassa ogni singola coscienza.

 

dal saggio di M. Lenti:

Nel silenzio campale evidenzia una ricchezza ed una peculiarità non facilmente rintracciabili nella produzione poetica odierna. Quanto alla ricchezza, in sintesi, si potrebbe parlare di poesia civile, canto di amore su un vuoto che nega il piano della vitalità, su un esistente che sembra negare le ragioni stesse di un esistere politico e, appunto, civile.

In esso le prevaricazioni e le imponenti banalità tentano di fare la Storia a scapito della storia. Volponi si situa, così, in quella linea poetica — sottile, per la verità, essendo prevalsa nei secoli la linea petrarchesca — fatta di indignazione e di progettualità, di lucida constatazione e di disegno appassionato “contro” l’azzeramento e la perdita.

La peculiarità, invece, che è poi a mio parere poiesis per eccellenza, consiste nel fatto che la poesia non declama standosene “rinchiusa” in versi, lasse, metrica, stanze, parole per così dire versate dal soggetto che scrive, ma si fa nel mentre stesso che versi, lasse, metrica, parole — e quanto altro sul piano scritturale — sono nella pagina da cui escono per formare un altro senso.

 

Anno IX/XI – Numero 19/23 – Luglio 1922/Dicembre 1994

♦ARLORIO GIORGIO, la sceneggiatura cinematografica, in «Fermenti», anno XLVI, 246, novembre 2017;


 

♦Cinema Ducale, che passione

(in www.marialenti.it, giugno 2016)


 

♦Cinema Italiano ed europeo:

Libertà di scelta

Le proposte di Rifondazione Comunista

di Maria Lenti

in «Gulliver» (Dossier/Cinema) – anno XIX – 5 maggio 2000

Per il cinema italiano ed europeo: questo il senso degli emendamenti che proponiamo al disegno di legge n. 6467 del ministro Giovanna Melandri.

Cinema che è tanta parte della cultura, ma anche della vita sociale e relazionale, del senso vorrei dire anche delle nostre individualità, dei divertimenti, crescite, riflessioni, mentalità e costume, di oggi e di ieri. Tutto un mondo, anche economico, anche ecologico, che oggi è compresso quando non frustrato nei suoi sforzi e nelle sue energie, dalla difficoltà di essere presente nelle sale, nei diversi luoghi della penisola, di essere dunque visto e, perché no?, gustato, criticato, rifiutato nel suo assunto e nel suo dire-raccontare e acquisito come dato della nostra esistenza o magari solo della nostra quotidianità e magari solo come distrazione e passatempo quando non come argomento di studio.

Ma se non circolano, o circolano poco e male, i film delle cinematografie europee, un termine del rapporto è mancante, dunque non si dà rapporto.

Esperti e studiosi, operatori del cinema italiano, già su queste pagine si sono occupati del problema. Qualche mia osservazione da frequentatrice assidua del cinema (e da presentatrice degli emendamenti di Rifondazione comunista in commissione cultura della Camera dei deputati) non può nulla aggiungere alle loro considerazioni e posizioni, ma anche ai numerosi, frequenti, ripetuti appelli perché il cinema italiano torni ad essere sugli schermi.

Gli emendamenti questo propongono, anche in sintonia con quanto è stato fatto in altri paesi, per esempio in Spagna. Più sale che proiettano e per più giorni film italiani ed europei, contributi ai gestori che non abbiano realizzato gli incassi mediamente raggiunti con altri film, case di distribuzione che devono doppiare per ogni film extracomunitario un film di cinematografie europee, divieto di concentrare produzione, distribuzione ed esercizio per imprese che producano più di cinque opere all’anno e abbiano un fatturato superiore a 25 miliardi (ovvero antitrust sulle concentrazioni verticali che oggi uniscono vari compartì dell’audiovisivo).

Rispetto al ddl Melandri, positivo perché volto a favorire la circolazione dei film, questi emendamenti vanno dunque un po’ più alla radice della stasi che vive il cinema italiano ormai da parecchio tempo. Una stasi denunciata dagli operatori del settore, dagli autori, dai produttori indipendenti, peraltro impegnati anche a suggerire le particolarità “tecniche” degli emendamenti stessi.

Che non hanno minimamente l’intento di “punire” qualcuno: hanno l’intento di ribadire la libertà di chi opera nel cinema di vedere assicurata la possibilità per le proprie opere di “esistere”. E l’intento di assicurare a chi va al cinema la libertà di scegliere. È una libertà anche economica oltre che culturale e delle persone, vanificata proprio dal catenaccio produzione-distribuzione-esercizio che mette in circolazione e sul mercato i propri film con una invadenza inarrestabile nelle città e nei piccoli centri, in televisione.

Quanti e quali sono i film realizzati per esempio in Italia, anche negli anni passati, che non hanno goduto nemmeno di un giorno di proiezione? Numerosissimi, come quelli che “sono stati su” un giorno e poi sono scomparsi. Niente pubblico: ecco perché l’opera non circola. È l’obiezione avanzata in discussione generale del disegno governativo: il “valore” del film è garantito solo dall’affluenza del pubblico. Ahimè, anzi, ahinoi. Ma, anche in questa ottica: se l’opera non circola come fa il pubblico a vederla?

È il cinema americano ad invadere. Il cinema è bello ed è bello il cinema americano, quando è bello. Meno bene va quando il mercato viene determinato e definito dalle concentrazioni verticali (e anche multinazionali) che “impongono” un dato film, molti film, tanti film e solo quelli in tutto il territorio.

Si guardino le programmazioni dei piccoli centri di una qualsiasi regione: si vedrà che l’unica sala di molti di questi centri nel fine settimana è occupata dallo stesso titolo. Se questa è libertà, quale libertà di scelta ha lo spettatore che vuole andare ai cinema?

D’altronde la stesura degli emendamenti, nati dall’incontro e dalle riflessioni con la gente del cinema, si è avvalsa della competenza di Ugo Rescigno, professore di diritto costituzionale alla Sapienza, che ha “guardato” a fondo la questione “libertà”.

Si è incrociata la libertà della manifestazione del pensiero con quella dell’arte e della scienza, quella della difesa e riconoscimento del lavoro (degli operatori del cinema) con quella dello spettatore e del cittadino: sono vari articoli, tra i fondamentali della Costituzione.

In questo crocevia di libertà il cinema italiano ed europeo ci sta benissimo: bisogna ridargli fiato, trovare la strada per farlo essere visibile perché sia guardato, seguito, visto, amato.

Una digressione, non peregrina, credo. Quanti, della mia generazione, hanno avuto il coraggio di affrontare la vita e l’esistenza anche perché il cinema offriva un contraltare di possibilità di idee, di figurazione di desideri, di riflessioni sul passato, di alternative al conformismo, dì divertimento spicciolo e profondo?

Forse che oggi non si ha bisogno di questo “schermo” di confronto, fatto nelle e delle dinamiche attuali, nelle pieghe e nelle crepe apertesi per tutti e tanto più per le generazioni oggi giovani che devono guardare a sé e al proprio domani?

Il cinema è anche questo “schermo”, insieme all’arte, alla letteratura, ad altri canali di pensiero. Anche su questo, allora, si dovrà ragionare nel comitato ristretto, con i colleghi deputati e il governo, per valutare emendamenti e proposte. Positive, ho detto, quelle iniziali del governo: si allargano nella circolazione le strade al cinema italiano ed europeo. Da questo impianto si può andare solo avanti, non indietro.

M.Lenti


 

♦Luisa: de ‘Il letto” di V.De Sica:

 

La bella fronte di Luisa

IL VOLTO E IL COMPORTAMENTO DI UNA RAGAZZA DONNA

la Luisa (Gabriella Pallotta) de Il tetto di Vittorio De Sica

Pubblicato in «Quaderni di Cinemasud» – anno 1, 2, dicembre 2004

con gli occhi di oggi, dentro la figura di Luisa, i suoi passi, i punti.

La Luisa di Gabriella Pallotta, resa nelle sfumature e sottolineata con intensità emotiva, dall’aspetto sicuro e tenero nel vestito da sposa noleggiato, nel cappotto un po’ abbondante, dal viso franco ma timido o trepido: in macchina, mentre si cambia dopo la cerimonia nuziale, in corriera verso il paese, nel richiamo del padre che s’allontana, nella casa della suocera, con il nipote acquisito malato, nel letto (dal chiaroscuro spicca la fronte) la notte delle nozze, alla finestra mentre guarda gli aeroplani, via via, fino alle sequenze finali (impaurita, con il bambino “preso a prestito”, e poi, serena nell’alba che spunta, con il bambino e Natale, il marito). Luisa, giovane, decisa e rassicurata (e rassicurante) vicino al suo Natale, al quale offre naturalmente (ossia con calma e fermezza) sostegno e lucidità.

Luisa come era e se era, non tanto nel 1956 (la data di questo delicato film di Vittorio De Sica. Delicato e, per taluni aspetti – così la critica di allora e quella più recente -, nuovo nella quotidianità difficile ma aperta al futuro), quanto, più probabilmente, subito dopo la seconda guerra mondiale in quella fame di case e di domani che Roma e le città italiane hanno sofferto fino allo spasimo e che Cesare Zavattini conosceva per aver fatto, peraltro, inchieste giornalistiche nelle borgate.

Luisa, lungo i canali della memoria e sulle impronte delle donne, ripercorse per vedervi le tracce della differenza e della diversità di genere, nel fare e nel vivere, dentro modalità e movenze di allora, per cercarvi il volto di una ragazza-donna, né eroina né vittima: il volto, cioè, di una donna consapevole di sé e dell’intorno e di sé in relazione con gli altri, con le altre.

 

La libertà di Luisa. Luisa sceglie il suo fidanzato e poi marito. Benché Natale insista che la prima mossa l’ha fatta lui, essa rivendica di essere stata la prima a farsi notare.

L’autonomia di Luisa. Appena maggiorenne, Luisa si sposa senza il consenso dei genitori, che non sono in chiesa il giorno delle nozze. Il padre, soprattutto (ma la moglie, madre di Luisa, gli obbedirà), era contrario a che Luisa, donna di servizio a Roma presso la famiglia del maggiore Baj, si sposasse perché i soldi, che lei manda a casa ogni mese, servono. Luisa segue il suo cuore che “non si comanda”: ma sentiamo che il cuore è la ragione stessa. Quanto ai soldi potrà ancora sostenere la famiglia contando sul suo servizio e sul fatto che Natale passerà da manovale a muratore. Della sua vita Luisa ha trovato il bandolo e si libera, è l’inizio del film, dalla tutela del padre e dalla paura di lui: ammesso che ne abbia mai avuta.

I sentimenti di Luisa. Subito dopo la cerimonia Luisa va dal padre, offeso e orgoglioso, muto e indifferente. Lo raggiunge al mare proprio nel momento in cui, sulla sua barca, sta andando a pescare dalla riva verso il largo. Lo slancio è tale che Luisa entra in acqua con le scarpe (presumibilmente nuove). Il comportamento del genitore, il suo averle levato consenso e saluto, non spinge Luisa ad ignorarlo, a buttarselo dietro le spalle, peso finalmente tolto: la sua capacità d’amare e d’amore è, dunque non dipende né è soggetta a ricatti.

La ritrosia di Luisa. Nella notte delle nozze passata, come altre seguenti, in casa dei genitori di Natale, in cui abitano cognati e nipoti, coram aliis il desiderio, pur vivo nei gesti prima di mettersi a letto e nello sguardo, è trattenuto, controllato. Anche all’aperto, al buio, dove si lascia condurre da Natale, si sente in una condizione di disagio, che non sembra il possibile imbarazzo della prima volta: gli slanci amorosi di Luisa, allora, hanno un luogo ed uno spazio, un tempo, un corpo. Che sono suoi.

Luisa e il lavoro. Luisa sa quanto e come costino il suo lavoro, quello di Natale e quello di Gina che ha preso il suo posto, su sua mediazione e proposta, in casa Baj. Luisa ha il senso della realtà.

Le relazioni di Luisa. Non silenziosa o introversa, ma più ascoltatrice che parlatrice, Luisa ha coscienza del valore della parola: <<Parliamo>>, dice ad un certo punto al marito per chiarire e per capirsi; <<Ti spiego>> ripete a Natale che scarta il progetto “casa di notte fino al tetto”. E’ in relazione da subito con le donne della sua nuova famiglia e resta in contatto con Gina. Da Gina si rifugerà quando Natale (lei, pur imbronciata, dispiaciuta, è d’accordo) decide di lasciare la casa dei suoi per contrasti, futili ma di sopravvivenza in poche stanze che costano, e irritazioni continue con Cesare, il cognato. E’ in relazione con le donne che, come lei, prendono acqua alla fontanella (e, possiamo immaginare, fanno la spesa alle bancarelle del mercato o nel negozietto all’angolo, stendono i panni e si scambiano pareri, opinioni, sui lavori di casa, sulle incombenze giornaliere, sul proprio vivere e pensare, sulla cura di sé e dei figli; si scambiano le informazioni sui prezzi, sulle occasioni, la scuola, sulle paghe dei mariti o le loro, gli asili (a venire), le ordinanze del comune, i provvedimenti, ecc. Insomma, si trasmettono conoscenze, di bocca in bocca, di madre in figlia, in una forma divenuta nei secoli sapienza, sapienza rintracciabile – fino a qualche decennio fa, l’epoca de Il tetto – solo nella letteratura e, poco, molto poco, nella storia. Quindi non riconosciuta). Ed eccola la sapienza: da una di queste donne, Lucia, Luisa saprà come e dove tirare su quattro muri.

Il coraggio di Luisa. Quando si tratta di cercare casa e, poi, di decidere di costruire la casupola, Luisa non esita e, a fronte delle tergiversazioni di Natale, che impegna la ragione sempre sul “posticipo”, a fronte delle sue paure (debiti, guardie, ecc.), oppone non l’aleatorietà di un futuro comunque o le speranze consolatrici sul domani, ma la certezza del presente e la determinazione di avere un tetto sotto cui vivere e far nascere il figlio in arrivo.

Il realismo di Luisa, la sua sensibilità. L’uscita dalla famiglia dei genitori di Natale ha significato la chiusura di ogni rapporto con Cesare. Luisa sa che Cesare è un ottimo (e svelto) muratore. Ha avvertito certamente che Cesare è uno di quei romani aspri, scontrosi se non ruvidi, ma generoso e tutto cuore. Vede e capisce che la casa non potrà essere terminata e coperta prima dei controlli mattutini. Così pensa di andare a chiamarlo – non escludendo il marito da questa sua volontà -. Si fa accompagnare da un ragazzino, sbucato dal buio. Tra entusiasmo e tremore, sembra una ragazzina anche lei su per la scarpata: è il senso dell’agire la propria energia nel cercare e nell’aver trovato la soluzione ad una difficoltà.

Il pianto e il sorriso di Luisa. Il pianto sembra troppo sul ciglio o nella voce, il sorriso è spontaneo, limpido: appaiono né imposti né impediti da una “leva di comando” direzionata o censoria.

 

In tutto il film Luisa c’è con le sue dinamiche, le sue proposte, tutto l’aiuto che può dare anche materiale (per esempio, portando acqua per impastare la calce), le sue decisioni difese e spartite, quelle degli altri ragionate e fatte (o non fatte) proprie, ed è parte solidale della costruzione: vigile, attenta, in ansia.

E’ una presenza a tutto tondo, non invasiva e non allusiva, discreta, chiara, senza ombre nella bella fronte, l’espressione rivolta, da sé, oltre sé, verso un esterno che appare suo perché interiorizzato.

Maria Lenti